L’arma segreta di Mackenzie McDonald

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 16 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Nel primo turno degli Australian Open 2019, il ventitreenne americano Mackenzie McDonald ha sconfitto il giovane russo Andrey Rublev in quattro set, 6-4 6-4 2-6 6-4. Anche se Rublev ha saltato parte del 2018 per infortunio e ha una classifica di poco all’interno dei primi 100, la vittoria per McDonald è un po’ un risultato a sorpresa. Non è mai infatti arrivato nemmeno vicino alla classifica più alta di Rublev al numero 31.

La manciata di tifosi interessati alla partita sul Campo 10 ha ricevuto un trattamento insolito. L’americano ha attaccato senza tregua la seconda di servizio di Rublev, andando a rete sulla risposta almeno in due dozzine di occasioni.

Molti giocatori non seguono la risposta a rete così spesso nemmeno in un’intera stagione. Soprattutto, è una tattica che ha funzionato, senza la quale una partita già molto equilibrata sarebbe diventata da lancio della moneta.

Secondo i dati che ho raccolto della partita per il Match Charting Project, McDonald è sceso a rete in risposta sulla seconda 22 volte. Il conteggio relativo ai colpi di approccio non è mai preciso, perché quando un giocatore sigla un vincente o commette un errore, può continuare il movimento verso la rete per poi fermarsi all’improvviso quando si accorge che non è più necessario.

Per essere precisi, McDonald è andato avanti almeno 22 volte, e forse si dovrebbe aggiungere una risposta vincente o un paio di errori alla risposta al totale. In ogni caso, le conclusioni rimangono invariate a prescindere che il numero sia 22 o 24.

Rublev ha servito la seconda palla 62 volte, di cui 9 doppi falli, quindi rimangono 53 servizi giocabili. McDonald ne ha seguiti a rete 22, vincendone 10. Degli altri 31, ne ha vinti solo 11. Stiamo parlando di una percentuale vincente alla risposta del 45% quando ha seguito la risposta a rete rispetto a una del 35% sulle altre risposte.

Se avesse mantenuto quest’ultima percentuale per tutte le risposte, avrebbe perso due o forse tre punti dal suo totale. Avendo fatto pochi più punti di Rublev – 124 contro 118 – ogni singola circostanza ha aiutato.

Una rarità

Il Match Charting Project contiene dati punto per punto di circa 2000 partite maschili in questa decade, e quella tra McDonald è Rublev è la prima partita in cui un giocatore è sceso a rete almeno 20 volte sulla seconda (Dustin Brown è andato a rete con una frequenza superiore in più di una partita, tra cui la vittoria a sorpresa contro Rafael Nadal a WImbledon nel 2015).

Ci sono solo altre 10 partite nel database in cui un giocatore ha colpito almeno 10 approcci di quel tipo, e tre sono di Mischa Zverev. Per più del 75% delle partite, il numero delle discese a rete in risposta alla seconda di servizio è zero.

McDonald non l’unico giocatore a rendere quella tattica efficace. Nella stessa partita, i circa 1500 approcci a rete in risposta alla seconda del database sono di quasi il 14% più remunerativi che i non approcci.

È difficile però essere sicuri del significato di questi numeri, visto che la maggior parte dei giocatori decide quasi sempre di rimanere a fondo campo.

Alcune discese a rete sono probabilmente decisioni sul momento contro giocatori la cui seconda è particolarmente debole, e non frutto di una strategia deliberata come quella di McDonald.

Per questo è difficile dire quanto la maggior parte dei giocatori beneficerebbe nell’andare a rete in risposta sulla seconda, se si optasse per questa scelta più spesso. Il fatto che venga usata così raramente ci dice già tutto quello che dobbiamo sapere. Se più giocatori ritenessero che fosse una tattica valida per fare più punti, lo starebbero già facendo.

Nel caso di McDonald non importa come giocano i suoi colleghi, conta solo quello che funziona per lui. Le 22 discese a rete rappresentano un atteggiamento molto più offensivo delle sue altre quattro partite nel database del Match Charting Project. E hanno generato i loro frutti.

Non è bastato per vincere contro Marin Cilic al secondo turno (partita persa per 7-5 6-7 6-4 6-4, n.d.t.), ma McDonald ha superato le attese, vincendo un set contro la testa di serie numero 6 e finalista del 2018. Più di tutto, ha vinto più del 50% dei punti sulla seconda di Cilic. Meglio di quanto ha fatto contro Rublev e diversi punti percentuali sopra il 46%, la quantità che l’avversario medio di Cilic riesce a ottenere.

In uno sport spesso criticato per un gioco poco eterogeneo, McDonald è un giocatore promettente che vale la pena osservare.

Mackie McDonald’s Secret Weapon

Fate attenzione a Tomas Berdych

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 15 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Per anni, Tomas Berdych è rimasto dietro le quinte. Anche nelle molte stagioni passate tra i primi 10, raramente ha messo in difficoltà i Fantastici Quattro, vincendo i suoi 13 tornei contro avversari più deboli.

Il quarto di finale raggiunto agli Australian Open 2018 è stato sorprendente, ma rappresenta anche il compendio di una carriera: un paio di vittorie brillanti e una sconfitta in tre set da Roger Federer.

Da quel momento il resto della stagione è andato a rotoli. Ha vinto due partite di fila solo due volte (di cui una a Marsiglia grazie al ritiro di Damir Dzumhur), ne ha perse cinque di fila tra il Miami Masters e il Roland Garros, per poi arrendersi definitivamente a un infortunio alla schiena prima di Wimbledon.

Con 33 anni compiuti lontano dai campi, sarebbe stato comprensibile vederlo faticare al rientro o decidere che il 2019 sarà l’ultima stagione da professionista. Nessuna delle due possibilità sembra essere quella giusta.

Berdych ha raggiunto la finale nel primo torneo dal quando è tornato, a Doha contro Roberto Bautista Agut, arrivando a un set dal primo titolo dal 2016.

Nel primo turno degli Australian Open 2019, ha facilmente sconfitto in tre set la testa di serie numero 13 e semifinalista nel 2018 Kyle Edmund. È poco probabile che un giocatore di 33 anni si riprenda il quarto posto in classifica – il massimo in carriera – dopo un infortunio alla schiena.

Dovesse evitare altri problemi, i primi 10 non sembrano irraggiungibili, specialmente contro avversari un po’ più deboli di quelli della prima parte degli anni ’00. Dopotutto, giocatori che riescono a rimanere nel circuito, come ad esempio Ivo Karlovic, possono migliorare anche intorno ai 35 anni.

Più sfortuna che altro

La ridotta stagione 2018 di Berdych non è stata così malvagia come può sembrare, e questo è gran parte del motivo della sua rinascita. Vero, ha perso tante partite quante ne ha vinte, e solo una volta ha battuto un giocatore tra i primi 20.

Pur non considerando gli infortuni, la sorte non è stata dalla sua parte. In cinque delle undici sconfitte ha giocato altrettanto bene del suo avversario, stando all’indice di dominio o Dominance Ratio (DR), cioè il rapporto tra la percentuale di punti vinti alla risposta e la percentuale di punti vinti alla risposta dall’avversario.

Si tratta solo di sfortuna: in carriera fino al 2017, Berdych ha perso 35 di quelle partite, ma ne ha vinte 35 quando gli avversari hanno giocato leggermente meglio. Invertiamo alcuni di quei risultati, e il suo record di 11 vinte e 11 perse si trasforma, per quel tipo di partite, in almeno 14-8, consentendogli di arrivare più spesso nei turni finali, tenuta fisica permettendo.

Un metodo più preciso per valutare il rendimento di Berdych nel 2018 si basa su statistiche corrette per il livello degli avversari, di cui ho parlato in un precedente articolo. Il grafico dell’immagine 1 mostra l’indice di dominio per ciascuna stagione, con l’età sull’asse delle ascisse.

IMMAGINE 1 – Indice di dominio nella carriera di Berdych

Indice di dominio di Berdych - settesei.it

La scorsa stagione, quella dei 33 anni, il suo indice di dominio corretto è stato di 1.22, il valore più alto per il singolo anno dal 2012, quando ha terminato da numero 6 del mondo. Potrebbe però essere un risultato casuale dovuto a un campione limitato, sono solo 22 le partite giocate.

D’altro canto un Berdych più in salute dovrebbe giocare ancora meglio. Una schiena più solida e resistente dovrebbe consentirgli di compensare le conseguenze di alcuni scambi che non girano a suo favore.

Ritorno di forza

E “forte” sembra essere la parola esatta, almeno stando ad alcuni dati preliminari. Nelle cinque partite agli Australian Open 2018, la velocità media della prima di servizio è oscillata tra 191 e 198 km/h, tra cui il valore medio di 195 km/h al primo turno.

Nella prima partita degli Australian Open 2019 contro Edmund, la media è stata di 201 km/h. Il servizio più veloce a Melbourne nel 2018 è stato di 212 km/h al terzo turno, rispetto ai 211 km/h dell’altro giorno.

Nel 2018, la frequenza complessiva di punti vinti al servizio è stata la più bassa dal 2009, e quindi il solido rendimento ottenuto arriva da una migliore prestazione alla risposta. Se riuscirà a servire meglio dello scorso anno, siamo di fronte a un altro segnale positivo.

Il proseguo del torneo offre un valido banco di prova della forma di Berdych. Al secondo turno trova Robin Haase, un avversario che un potenziale giocatore da primi 10 dovrebbe battere agilmente (Berdych ha vinto 6-1 6-3 6-3, n.d.t.). Al terzo turno lo aspetta Diego Schwartzman, contro cui è leggermente favorito sul cemento ma che richiede uno sforzo di ben altro tipo rispetto alla partita con Edmund.

Dovesse raggiungere la seconda settimana, il probabile quarto turno è contro Rafael Nadal. Naturalmente le aspettative saranno limitate ma, in fondo, non è molto diverso da tutte le volte in cui hanno giocato in passato. E la speranza è l’ultima a morire: Nadal ha vinto 18 partite su 19, ma l’unica sconfitta è arrivata proprio quattro anni fa, agli Australian Open.

Watch Out For Tomas Berdych

La settimana decisamente positiva di Bianca Andreescu

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 4 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Chi segue il tennis femminile è ormai abituato a vedere giocatrici pressoché adolescenti rifilare sonore sconfitte a colleghe ben più navigate. Nessuno si aspettava però l’impresa portata a compimento dalla diciottenne Bianca Andreescu.

Appena fuori dalle prime 150, con tre vittorie si è qualificata per il torneo di Auckland – che inaugura la stagione 2019 – dove ha poi demolito Timea Babos al primo turno. Sono seguite le vittorie contro le ex numero 1 Caroline Wozniacki e Venus Williams. Ha raggiunto la prima semifinale dopo solo cinque tabelloni di singolare in tornei del circuito maggiore e scalerà la classifica di almeno una dozzina di posizioni.

Vittorie di lusso

La cavalcata di Andreescu si fa notare per il livello delle avversarie. Wozniacki non era in perfetta forma per problemi fisici e Williams non è più imbattibile come una volta, ma è pur vero che a giocatrici di retrovia come la canadese non succede molto spesso di eliminare una numero 1 attuale o passata.

Dal 1984, ho trovato solo 2000 sconfitte di questo tipo. In più di 300 hanno vinto contro una numero 1 o ex numero 1, e molte di queste vittorie a sorpresa arrivano da giocatrici di vertice. Serena Williams ha battuto una numero 1 o ex numero 1 più di 100 volte, Venus ci è riuscita 65 volte, tra cui la vittoria al primo turno contro Victoria Azarenka a Auckland.

Sempre dal 1984, è il 171esimo torneo in cui una giocatrice elimina due o più avversarie con quella qualifica, un evento quindi che si verifica quasi cinque volte a stagione.

Aumento nella frequenza di doppiette

Negli ultimi anni si è assistito a un aumento della frequenza dovuto almeno in parte alla copiosa presenza sul circuito di ex numero 1, aspetto che ne rende più probabile l’accadimento. La maggior parte delle giocatrici che hanno battuto più di una numero 1 sono a loro volta giocatrici di élite. Serena lo ha fatto in 26 dei 171 tornei, Venus in 9. Andreescu è diventata la 71esima a centrare il doppio risultato.

E a diciotto anni e mezzo, la canadese è una delle più giovani a eliminare più di una ex numero 1 nello stesso evento. Ha poco più dell’età di Belinda Bencic quando nel 2015 a Toronto ha sconfitto Serena, Wozniacki e Ana Ivanovic. Dobbiamo tornare indietro al Roland Garros 2006 prima di trovare una giocatrice più giovane in grado di ottenere un risultato simile.

La tabella elenca le giocatrici con età uguale o inferiore a Andreescu.

Torneo                 Giocatrice     Età   
1997 Roland Garros Hingis 16.7
1998 Key Biscayne Kournikova 16.8
1998 Berlino Kournikova 16.9
2006 Roland Garros Vaidisova 17.1
2004 Wimbledon Sharapova 17.2
1999 Indian Wells S. Williams 17.4
1999 Key Biscayne S. Williams 17.5
1987 Key Biscayne Graf 17.7
1988 Boca Raton Sabatini 17.8
1999 Manhattan Beach S. Williams 17.9
2005 Miami Sharapova 17.9
1999 US Open S. Williams 17.9
2015 Toronto Bencic 18.4
1996 Tokyo Majoli 18.5
2019 Auckland Andreescu 18.5

Non sarebbe la prima in questa lista a svanire nel nulla senza aver occupato un posto tra le più grandi di sempre ma, in generale, per una qualificata di diciotto anni è un bel gruppo di cui far parte.

Da una classifica ben al di fuori delle prime 100

E Andreescu si contraddistingue anche perché la sua classifica è ben al di fuori delle prime 100 (almeno per qualche altro giorno). Delle 171 occasioni in cui una giocatrice ha eliminato due numeri 1, nessuna lo ha fatto da una posizione così bassa. Solo Louisa Chirico ha ottenuto questo privilegio quando era fuori dalle prime 100, battendo Azarenka e Ivanovic a Madrid 2016.

Si tratta solo della tredicesima volta in cui una giocatrice batte due numeri 1 o ex numeri 1 da classificata fuori dalle prime 40, e alcune volte è capitato quando un’abituale giocatrice di vertice stava risalendo la classifica dopo un periodo di assenza.

Torneo                 Giocatrice   Età     Class.    
2019 Auckland Andreescu 18.5 152
2016 Madrid Chirico 20.0 130
2003 Roland Garros Petrova 21.0 76
2017 Madrid Bouchard 23.2 60
2007 Istanbul Rezai 20.2 59
2010 Australian Open Kirilenko 23.0 58
2009 Pechino Peng 23.7 53
2014 Montreal Vandeweghe 22.7 51
2007 Pechino Peng 21.7 49
2005 Parigi Safina 18.8 48
2015 Doha Azarenka 25.6 48
2018 Indian Wells Osaka 20.4 44
2014 Dubai V. Williams 33.7 44

Due vittorie così sorprendenti non sono garanzia di futuro successo. Far vedere di essere in grado di sconfiggere due veterane di alto calibro è però probabilmente più indicativo, a questo proposito, di quanto non lo sia vincere una manciata di titoli ITF $25K o diverse prove di Slam juniores in doppio (come Andreescu ha fatto).

In presenza già di così tante celebrate giovani promesse, sono bastate ad Andreescu solo 48 ore per diventare una delle giovanissime del circuito femminile che vale la pena tenere sotto attenta osservazione.

Bianca Andreescu’s Very, Very Good Week

Un rivisitazione della componente mentale nel tennis

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 13 dicembre 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Sembra esserci un consenso di fondo sulla rilevanza della componente mentale nel tennis. È meno chiaro però cosa significhi esattamente. Opinionisti e tifosi spesso si riferiscono a determinati giocatori come più forti o meno forti mentalmente, aspetto che aiuta a giustificare un eventuale divario tra talento e prestazioni.

Predominio, mano calda, continuità di risultato

Ci sono tre concetti a cui più si fa riferimento in una discussione sul “gioco mentale”: predominio nei momenti chiave, mano calda, continuità di risultato. Spesso ne ho criticato l’eccessivo utilizzo da parte dei commentatori televisivi. Ad esempio, servire un ace sulla palla break è considerato predominante, nel senso che quel giocatore ha imposto il suo gioco in un momento molto delicato.

Questo però non vuol dire che il giocatore possa essere descritto come predominante. Reagire bene alla pressione di specifiche situazioni non determina necessariamente che venga fatto più spesso della media.

Lo stesso vale per la “mano calda”: si tende a generalizzare in modo eccessivo da piccoli campioni di dati, quindi se un giocatore colpisce di fila tre rovesci lungolinea vincenti, si è portati a pensare che abbia la mano calda, anche se a volte può dipendere solo dalla fortuna.

È probabile che ci siano giocatori più predominanti, più con mano calda e più continui dei colleghi – o viceversa – anche oltre quanto è attribuibile al caso.

Contestualmente, nessun professionista è così tanto o poco predominante al punto che il suo gioco nelle fasi di maggiore importanza della partita spieghi in larga misura il suo successo o fallimento sul circuito.

Effetti ridotti

La maggior parte dei giocatori vince tanti tiebreak quanti ci si attende dal record di set che terminano con altro punteggio e trasforma palle break in numero pronosticatile dalle statistiche complessive alla risposta. Non accade nulla di magico nelle circostanze di maggiore pressione comunemente chiamate in causa, e non ci sono giocatori che diventano improvvisamente superman o materiale da discarica.

Se siete regolari fruitori del mio blog, è probabile che vi sia capitato di aver già letto sulla tematica, da me o da molti altri analisti di sport. Non voglio estremizzare dicendo che il predominio nei momenti chiave sia inesistente (o la mando calda o la continuità di risultato), mi preme evidenziare che questi effetti sono ridotti, così ridotti che difficilmente ce ne si accorge guardando le partite. E a volte così piccoli da mettere in difficoltà anche gli analisti nel distinguerli dalla casualità totale.

Eppure, rimaniamo con l’unanime, e invitante (!), convinzione che il tennis sia un gioco mentale. Nel tentativo di introdurre diversi tipi di modelli semplificati, scriverò sempre qualcosa del tipo: “sarebbe così se i giocatori fossero dei robot”. Per quanto alcuni di questi modelli siano decisamente precisi, credo che si sia tutti d’accordo sul fatto che i giocatori non sono dei robot, a eccezione forse di Milos Raonic.

Puramente mentale

C’è una versione estrema della convinzione che il tennis sia un gioco mentale che ho sentito attribuita a James Blake, quella per cui la differenza tra il numero 1 del mondo e il numero 100 è puramente mentale (immagino sia una eccessiva semplificazione del pensiero di Blake, ma sono opinioni diffuse a sufficienza da rendere l’idea di fondo degna di considerazione).

È un po’ dura da mandare giù. Chi infatti pensa che Radu Albot (l’attuale numero 99) abbia talento nella stessa misura di Rafael Nadal? Se ci allontaniamo un po’ dalle posizioni estreme, possiamo scorgerne l’attrazione.

Al momento, sia Bernard Tomic che Ernests Gulbis hanno una classifica tra il numero 80 e il 100. Si può affermare con sicurezza che entrambi non hanno talento quanto due tra i primi 10 come Kevin Anderson e Marin Cilic? Eppure spesso Tomic si mette in luce positiva in situazioni di pressione, mentre è Cilic quello a crollare.

Non è un problema di gestione della pressione

Il problema con Tomic, Gulbis e tanti degli innumerevoli giocatori che nella storia del tennis non hanno raggiunto grandi risultati non è la loro incapacità a gestire la pressione. Ricordiamo tutti partite, o set, o altre lunghe sequenze di gioco in cui un giocatore sembra disinteressato, poco motivato o senza energie per nessuna apparente ragione.

Anche tenendo conto dell’effetto o distorsione di selezione, penso che sia più probabile assistere a rendimenti inspiegabilmente mediocri da parte di giocatori che non hanno ottenuto risultati all’altezza delle aspettative (riuscite a immaginarvi Nadal non motivato? O Maria Sharapova?).

In senso molto ampio, li si può intendere come mano calda e continuità di risultato, ma non credo che siano gli esempi canonici a cui generalmente ci si riferisce. Operano invece su scala più larga, diciamo un intero set di mediocrità rispetto ad esempio a tre doppi falli in un solo game, e offrono una nuova modalità di pensiero sugli aspetti mentali del tennis.

Livello massimo sostenibile

Diamo a questa nuova variabile il nome di concentrazione. Ci sono innumerevoli potenziali distrazioni, interiori ed esterne a un giocatore, che ostacolano il raggiungimento della massima prestazione. Più un giocatore è in grado di ignorarle, metterle in un angolo o superarle, più è concentrato.

Ipotizziamo che ciascun giocatore abbia un personale livello massimo sostenibile di qualità di gioco e che, su una scala da 1 a 10, il massimo sia appunto 10 (sottolineo sostenibile per far capire che non si sta parlando delle volée smorzate dietro alla schiena da contorsionista di Agnieszka Radwanska, ma del miglior livello che un giocatore è effettivamente capace di mantenere. Il livello 10 di Nadal è diverso quindi dal 10 di Albot). Il valore di 1 alla base della scala si verifica raramente tra i professionisti, pensiamo a Guillermo Coria o Elena Dementieva che all’improvviso non riescono più a servire.

Maggiore la concentrazione, più spesso un giocatore si esprime al valore massimo di 10 e, per quanto non possa essere in grado di sostenerlo per tutta la partita, il giocatore più concentrato rimane più a lungo al livello 10.

Concentrazione, non continuità

Questa idea della concentrazione assomiglia molto alla vecchia definizione di continuità, e forse è quello che le persone hanno davvero in mente quando ne attribuiscono i meriti a un giocatore. Ma ci sono diverse ragioni per le quali credo sia necessario discostarsene.

La prima è pedanteria: continuità non è necessariamente un bene. Se si chiede a un giocatore di essere continuo e quel giocatore colpisce solo errori non forzati di dritto, ha seguito le istruzioni continuando a giocare male.

Più seriamente, la continuità è spesso associata al concetto di basso rischio, che però è una strategia, non un tratto positivo o negativo. Una giocatrice come Petra Kvitova non sarà mai continua perché il gioco aggressivo che la contraddistingue comporterà sempre molti errori, a volte decisamente negativi e occasionalmente in momenti sbagliati. Anche una strategia ottimale per una Kvitova al massimo della concentrazione sembrerà mancare di continuità.

Se non pensate altro che al tennis, la mia definizione di continuità vi apparirà molto limitata. Sono d’accordo, è un po’ provocatoria. Mi fosse possibile fare meglio di così nell’individuare in modo conciso di cosa parlano le persone in relazione alla continuità, lo farei.

Ripeto, parte del problema è l’eccessiva connotazione del termine. Anche se per continuità s’intende effettivamente concentrazione, ritengo sia importante trovare un’altra parola con meno peso.

Come negli scacchi

La concentrazione è davvero meglio delle altre caratteristiche di gioco mentale contro cui mi sono scagliato? Possiamo misurare in modo oggettivo il predominio nei momenti chiave, diventa molto più difficile analizzare i dati di una partita o di un’intera stagione e quantificare il livello di concentrazione raggiunto da un giocatore.

Tuttavia, ho il forte sospetto che tra i giocatori di vertice, la concentrazione vari di più, ad esempio, della mano calda in micro passaggi di gioco. Detta altrimenti: la differenza in concentrazione tra i migliori potrebbe essere la principale spiegazione di rendimenti differenti.

Ho incominciato a riflettere sull’importanza della concentrazione – ancora una volta, la capacità di sostenere il livello massimo di gioco o un livello appena inferiore per lunghi periodi – durante il Campionato del Mondo di Scacchi del mese scorso tra Magnus Carlsen e Fabiano Caruana (di cui ho scritto per l’Economist).

Appellativo di gioco mentale

Gli scacchi sono molto diversi dal tennis, è ovvio. Ma visto che non prevedono vigore, velocità o agilità di alcun tipo, hanno il diritto di arrogarsi l’appellativo di gioco mentale molto più di quanto spetti al tennis.

Pur dando spazio a momenti di splendore, le classiche partite di scacchi richiedono un livello di concentrazione così sostenuto che pochi riescono a comprendere. Basta un passaggio a vuoto contro un giocatore di élite che a quel punto è meglio abbandonare e riposarsi per la partita successiva.

Lo stereotipo più diffuso di grande maestro di scacchi è quello di una persona anziana che fa leva su esperienza e arguzia derivante da decenni di conoscenza per tenere a bada i giovani giocatori.

Eppure Carlsen e Caruana, i primi 2 del mondo, non hanno ancora compiuto trent’anni. Tra gli attuali primi 30, solo quattro giocatori sono nati prima del 1980, dodici negli anni ’90 e due dopo il 1998. La distribuzione dell’età dei più forti negli scacchi è incredibilmente simile a quella dei vertici del tennis.

Curve d’invecchiamento simili

La curva d’invecchiamento nel tennis si presta a una facile spiegazione. I giocatori possono iniziare a scalare la classifica al raggiungimento della maturità fisica verso la fine dell’adolescenza. Continuano a migliorare tra i venti e i trent’anni beneficiando di maggiore esperienza e di un fisico allenato per sopportare qualsiasi sollecitazione. Poi subentra il deterioramento fisico, i cui effetti iniziano a sentirsi verso i trent’anni, aumentando con il passare del tempo.

C’è naturalmente un fondo di verità in questo. Non importa quanto sia rilevante l’aspetto mentale, è difficile rimanere competitivi se si è perso in velocità o resistenza. E diventa ancora più dura con dolori cronici alla schiena o alle ginocchia.

Ma l’analogia con gli scacchi rimane valida: se il tennis fosse un gioco mentale, con la concentrazione a giustificare gran parte della variazione tra giocatori di vertice, la curva d’invecchiamento sarebbe quasi identica agli scacchi.

I miglioramenti introdotti dalla scienza moderna nelle tecniche di allenamento, di alimentazione e di recupero dagli infortuni hanno portato – grazie alla riduzione degli effetti di deterioramento fisico – a un appiattimento della curva d’invecchiamento del tennis verso la fine dei venti e l’inizio dei trent’anni.

In altre parole, la mitigazione della componente di rischio fisico determina una traiettoria della carriera dei giocatori d’élite nel tennis ancora più simile a quella degli scacchi.

Uno sguardo in avanti

Al momento, è solo un’ipotesi. Si può essere d’accordo che sia molto intrigante, ma resta non dimostrata, e probabilmente è estremamente complessa da dimostrare.

Se una concentrazione sostenuta è un fattore così rilevante nella prestazione dei vertici del tennis, come riusciamo anche solo a identificarla? Il metodo più diretto sarebbe quello di evitare del tutto il campo e studiare esperimenti di misurazione della concentrazione dei più forti. Dubito però si possa convincere i primi 100 della classifica a passare una divertente giornata di test in laboratorio.

C’è tuttavia del potenziale di lungo termine, perché è quello che le federazioni nazionali potrebbero fare con le loro giovani promesse. Anzi, potrebbe essere che alcune lo stiano già facendo. Ad esempio, alcune squadre professioniste americane di baseball e pallacanestro prevedono test cognitivi per valutare giocatori da mettere sotto contratto.

No cavie da laboratorio

Purtroppo, non possiamo fare dei migliori giocatori del mondo delle cavie. Se considerassimo invece i risultati delle partite, potremmo provare a calcolare la concentrazione con un approccio simile a quello che ho adottato prima in nome della quantificazione della continuità (oops!).

Il precedente algoritmo provava a misurare la prevedibilità dei risultati di un giocatore, vale a dire capire se l’undicesimo migliore del mondo perde dai primi 10 ma batte tutti gli altri o se il suo rendimento è meno pronosticabile. Non è quello a cui siamo interessati ora, perché per definizione la continuità non è necessariamente positiva.

Si può però seguire un percorso simile. Con in mano uno o più anni di risultati, si potrebbe stimare il livello massimo di un giocatore, magari con la media dei suoi cinque migliori risultati (il miglior risultato in assoluto potrebbe dipendere da un infortunio dell’avversario, una sospensione per pioggia nel momento sbagliato o un altro episodio inusuale). Avremmo così definito il livello 10 nella scala da 1 a 10 di quel giocatore.

A questo punto, confrontiamo gli altri risultati con il suo massimo. Se la maggior parte è vicina a quel livello – cioè il giocatore con continuità di gioco che perde dai primi 10 ma batte tutti gli altri – sembra allora essere concentrato, almeno da una partita all’altra. Se invece accumula molte sconfitte nette, non riesce a sostenere il livello di cui lo sappiamo capace.

Conclusioni

Non è un metodo totalmente soddisfacente, come spesso accade quando si opera con statistiche riguardanti un’intera partita. Forse, si potrebbe fare ancora meglio con dati specifici sui colpi o generati da sistemi come Hawk-Eye. Con un approccio come quello descritto – stabilire un massimo come termine di paragone – si potrebbero analizzare la velocità o l’efficacia al servizio, la frequenza delle risposte in gioco, la conversione delle opportunità a rete, e così via.

Sarebbe complicato, in parte perché la bravura dell’avversario e la velocità della superficie hanno sempre la possibilità di incidere su quei numeri, ma credo valga la pena approfondire. Se ho ragione, se cioè il tennis non è solo un gioco mentale, ma è profondamente influenzato da una concentrazione sostenuta, l’impatto di lungo termine è sullo sviluppo dei giocatori. Scuole e allenatori dedicano già molto tempo alle strategie, usando anche idee derivate dalla psicologia. Sarebbe un passo ulteriore in quella direzione.

La componente mentale nel tennis, e nello sport in generale, resta un caotico groviglio di aspetti sconosciuti. E, visto che la nuova generazione di giocatori d’élite è alla ricerca di piccoli miglioramenti tecnico-tattici da cui ricavare un vantaggio, forse la componente mentale è davvero la prossima frontiera, quella che permetterà alle nuove leve di ribaltare l’ordine precostituito.

Rethinking the Mental Game

I match point di Simona Halep

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 21 agosto 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Nel tiebreak del secondo set della finale del torneo di Cincinnati 2018, Simona Halep ha avuto un match point contro Kiki Bertens. Non è riuscita a vincere il punto, poi Bertens ha fatto suo il tiebreak, aggiudicandosi anche il terzo set e il titolo.

Si è trattato di un déjà vu un po’ doloroso per i tifosi di Halep, memori della sconfitta al terzo turno di Wimbledon contro Su Wei Hsieh, a seguito di un match point sprecato.

Halep non gode di una reputazione favorevole nel chiudere le partite, non solo nei match point ma anche nei set point e, più in generale, nei game al servizio quando si decide il set o la partita. Valutare complessivamente la sua abilità nel vincere le partite va oltre le ambizioni di un solo articolo, ma possiamo iniziare ad analizzare il rendimento in un contesto più ridotto – nello specifico i match point – e confrontarlo con quello del resto del circuito maggiore.

Match point e nuove occasioni di chiusura

Partiamo dalle basi. Per qualsiasi giocatrice, raggiungere il match point è (ovviamente!) un ottimo segno del fatto che vincerà la partita. Su circa 16.000 partite femminili dal 2011 per le quali possiedo dati in sequenza punto per punto, le giocatrici che hanno avuto un match point hanno poi vinto la partita in poco più del 97% dei casi.

Non significa necessariamente che hanno chiuso al primo tentativo, o anche nel game o set della prima opportunità, ma pure in presenza di difficoltà di trasformazione del match point sono riuscite a generare nuove occasioni per terminare la partita.

Se vogliamo trovare le prove della debolezza di Halep in questo ambito di gioco, dobbiamo guardare altrove. Tra la fine del 2011 e la Rogers Cup a Montreal in agosto, Halep ha vinto 250 delle 251 partite in cui ha avuto un match point tra quelle di cui possiedo dati in sequenza punto per punto (ne ho per la maggior parte delle partite di Halep, e me ne mancano in modo casuale. Lo stesso vale praticamente per tutte le altre giocatrici. Alcuni dati sono disponibili qui, spero di aggiornali presto con il 2017 e 2018). Vale ha dire che, con l’eccezione di Wimbledon contro Hsieh, non ha mai perso una partita in cui ha avuto almeno un match point.

Non è un risultato che si distingue se lo si confronta con quello delle giocatrici più forti. Tra le cinquanta donne con almeno cento partite con un match point a favore, cinque – Serena WilliamsVictoria AzarenkaAndrea PetkovicEkaterina Makarova e  Elena Vesnina – hanno sempre trasformato un match point, se non proprio al primo tentativo (anche qui mancano alcune partite, ciò non toglie che in un campione casuale di 259 partite, Williams non ha mai perso).

Prima della finale di Cincinnati, Halep era in compagnia di otto giocatrici – tra le altre Petra KvitovaMaria SharapovaAna Ivanovic – ad aver perso una sola partita dopo un match point a favore.

Rendimenti in situazioni di gioco

Non è un caso vedere i nomi più dominanti del tennis femminile nelle zone alte della lista. È vero, le migliori sono quelle che più probabilmente convertiranno il match point ma, altrettanto importante, sono anche quelle con più probabilità di ottenere diverse occasioni per chiudere la partita.

A tiebreak avanzato un errore può rappresentare la sentenza definitiva, ma la maggior parte delle volte in cui Halep, Williams o giocatrici di quel livello mancano di cogliere un’opportunità, sono avanti nel punteggio magari di un set e un break, e quindi in posizione ideale per generarne di successive.

Questo porta a un’altra domanda: che rendimento hanno sul match point le giocatrici? La pressione del momento determina meno punti vinti rispetto a quelli al servizio o alla risposta in cui non si è sul match point? O fattori di natura diversa, come il vantaggio psicologico o il tifo del pubblico, spingono le giocatrici a fare ancora meglio?

A quanto pare non esiste una sola spiegazione; i risultati divergono, seppur di poco, a seconda che il match point a favore sia al servizio o alla risposta. È leggermente meno probabile per una giocatrice vincere il punto quando è al servizio per chiudere la partita, rispetto al suo rendimento al servizio fino a quel punto.

Non è una differenza sostanziale – quasi un 3% in meno nella frequenza di punti vinti al servizio – ma si mantiene costante in molti anni di risultati del circuito femminile. A un punto dalla partita ma sul game alla risposta, l’effetto match point non si verifica. La frequenza dei punti vinti alla risposta rimane invariata a prescindere da una possibile imminente stretta di mano.

Quasi tutte le giocatrici sono vicine alla neutralità

I match point sono quasi parimenti distribuiti tra servizio e risposta: sul circuito femminile circa il 55% arrivano al servizio, con il rimanente 45% alla risposta. Considerando quindi una diminuzione del 3% nel rendimento al servizio ma una situazione immutata alla risposta, le giocatrici vincono all’incirca l’1.5% di punti in meno sul match point che in altri momenti della partita.

Una giocatrice che replica quasi alla perfezione questa tendenza è Caroline Wozniacki, che in 271 partite con almeno un match point e 474 match point effettivi, ha vinto quei match point con una frequenza inferiore dell’1.7% rispetto agli altri punti.

Se analizziamo punti singoli, alcune delle giocatrici che quasi sempre vincono partite con match point a favore non fanno molto meglio della media. Ad esempio, Sharapova vince match point con una frequenza inferiore dell’1.2% rispetto agli altri punti, mentre per Azarenka scende all’1.4%. Dominika Cibulkova ha vinto 198 delle 201 partite con match point nel mio campione di dati, nonostante la frequenza di conversione sia scesa di un incredibile 7%.

Halep però non rientra nella categoria. Nelle 251 partite con match point a favore ha avuto 420 match point singoli, che ha vinto con una frequenza del 4.4% più alta degli altri punti nello stesso insieme di partite.

In poche riescono meglio, anche se alcune con ampio margine, come Kvitova con il +9.0% e Vesnina con il +13.9%. La grande maggioranza delle giocatrici è a qualche punto percentuale dalla neutralità, vincendo cioè match point – al servizio o alla risposta – circa nella stessa misura degli altri punti.

Risultati casuali

Questi numeri comunicano solo una cosa, e cioè quello che è successo in passato. Si è tentati di usarli per fare previsioni, o magari scommettere cifre importanti la prossima volta che a Vesnina manca un punto per la vittoria. Ma quando la maggior parte delle giocatrici è così vicina alla neutralità, serve tenere in mente che molte delle risultanze potrebbero essere del tutto casuali.

Se esistono dinamiche ricorrenti in situazioni di match point, dovremmo essere in grado di identificarle dai dati a disposizione. Ad esempio, potremmo accorgerci che Kvitova trasforma match point con una frequenza alta in ogni singola stagione.

Per ovviare al problema generato dai totali della singola stagione che a volte costituiscono un campione eccessivamente ridotto, ho adottato un metodo differente.

Ho suddiviso in modo casuale in due gruppi distinti le partite di quelle giocatrici che hanno avuto almeno 60 partite con match point, e confrontato il rendimento sui match point con la frequenza di successo negli altri punti.

Se si trattasse di un effettivo talento, ci dovremmo attendere una distribuzione quasi identica in ciascuno dei due gruppi casuali, vale dire meglio o peggio della media nei match point in entrambi i gruppi.

Purtroppo, per questa popolazione di 80 giocatrici con abbastanza match point, non c’è alcun tipo di correlazione. Se le giocatrici manifestano tendenze durevoli e prevedibili di prestazioni superiori o inferiori nelle opportunità di chiusura della partita, o si tratta di variazioni impercettibili o non reggono il passare del tempo.

Previsioni intelligenti

È il classico riscontro associato a specifiche situazioni nel tennis. Il nostro iperattivo cervello in cerca di modelli interpretativi trova più semplice identificare percorsi validi solo all’apparenza. In generale però, le giocatrici vincono punti con la stessa frequenza a prescindere dal contesto.

Nel medio periodo, come i cinque anni rappresentati dai dati punto per punto del mio campione, emergono alcune giocatrici, come Kvitova, Vesnina e, in misura minore, Halep. Ma i risultati passati difficilmente sono garanzia di un determinato comportamento di fronte a match point di partite future.

La previsione più intelligente dell’esito di futuri match point per qualsiasi giocatrice è che si comporterà esattamente allo stesso modo che sugli altri punti. È una conclusione decisamente noiosa. Per fortuna, le circostanze in cui viene giocato un match point sono di solito già per loro natura sufficientemente eccitanti.

Simona Halep’s Match Points

La giusta quantità di servizio e volée

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato l’8 settembre 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Nel tennis moderno, i giocatori si avventurano a rete a loro rischio e pericolo, specialmente seguendo il servizio. Lo sviluppo tecnologico di corde e telai ha permesso di aumentare forza e precisione del passante, dando al giocatore alla risposta un margine aggiuntivo. È difficile pensare a un cambiamento del gioco che porti nuovamente a usare il servizio e volée come tattica dominante.

Spesso però opinionisti e telecronisti sottolineano come i giocatori dovrebbero andare a rete più frequentemente, esortando a un maggiore ricorso al servizio e volée. In un recente articolo su FiveThirtyEight, Amy Lundy ha contribuito alla conversazione con un po’ di numeri, evidenziando come agli US Open 2018 le donne abbiano vinto il 76% dei punti con servizio e volée e gli uomini il 66%. Mostra inoltre come nell’ultimo decennio abbondante a Wimbledon, nel tabellone femminile anno per anno la percentuale di successo si è aggirata intorno al 65%.

Un buon risultato, no? Beh…non corriamo. Fino alle semifinali agli US Open 2018, gli uomini hanno vinto circa il 72% dei punti sulla prima di servizio. La maggior parte dei tentativi di servizio e volée arrivano sulla prima, quindi una frequenza di successo del 66% nelle discese a rete non è la migliore delle raccomandazioni. Le donne sono al 76%, ed è più incoraggiante perché la frequenza complessiva di punti vinti sulla prima di servizio nel tabellone femminile è del 64%. Ma, come vedremo, le giocatrici solitamente non raccolgono così tanta gloria a rete.

Teoria dei giochi a rete

Nel valutare una strategia, occorre prima di tutto ricordarsi che giocatori e allenatori generalmente sanno quello che fanno. Certo, anche loro commettono errori e possono cadere in sequenze di gioco sub-ottimali. Sarebbe però molto sorprendente scoprire che hanno rinunciato a centinaia di punti ignorando una tattica alquanto nota. Se scendere a rete dopo il servizio fosse così remunerativo, i giocatori lo starebbero già facendo.

Ho interpellato i dati del Match Charting Project per avere un’idea più precisa di quanto i giocatori facciano ricorso al servizio e volée, di quanto sia una strategia efficace e, altrettanto importante, quanti punti vincano quando evitano di usarlo. L’esito è molto più incerto rispetto all’entusiasmo dei sostenitori del servizio e volée.

Cosa succede tra le donne

Iniziamo con le donne. Dal 2010 a oggi, in quasi 2000 partite con dati punto per punto a disposizione, ho trovato 429 partite-giocatrice con almeno un tentativo di servizio e volée. Dopo aver eliminato gli ace, a prescindere dalla volontà della giocatrice al servizio di scendere a rete le 429 giocatrici del campione hanno totalizzato 1191 tentativi di servizio e volée – il 95% con la prima di servizio – vincendo 747 punti.

Se invece di scendere a rete su quei 1191 punti avessero vinto il punto con la stessa frequenza con cui, in quelle partite, vincevano i punti sulla prima e sulla seconda rimanendo a fondo campo, avrebbero vinto 725 punti. In alte parole, il servizio e volée ha portato a una frequenza di vittoria del punto del 62.7%, mentre rimanere a fondo è valso il 60.9% dei punti vinti.

Per essere chiari, si tratta di un confronto diretto di frequenze di successo per le stesse giocatrici contro le stesse avversarie, controllando per le differenze tra prima e seconda di servizio. Una divario di circa due punti percentuali non passa inosservato, ma è ben lontano da più del 10% visto tra le donne agli US Open 2018. E per molte giocatrici potrebbe non rappresentare incentivo sufficiente a mettere da parte la scarsa familiarità con il gioco a rete o con quel tipo di tattica.

Cosa succede tra gli uomini

Con ancora più dati a disposizione, la stessa analisi per gli uomini restituisce esiti sconcertanti. In quasi 1500 partite del Match Charting Project dal 2010 a oggi, più della metà dei possibili giocatori-partita (1631) ha provato almeno una volta a seguire il servizio a rete. Escludendo sempre gli ace, circa quattro su cinque sono state prime di servizio. La percentuale di successo a livello di circuito è stata simile a quanto osservato agli US Open 2018, pari al 66.8%.

Controllando per prima e seconda di servizio, gli stessi giocatori al servizio negli stessi tornei contro gli stessi avversari hanno vinto punti con una frequenza del 72.2% decidendo di non andare a rete dopo il servizio. È una differenza* di cinque punti percentuali che evidenzia come, in media, i giocatori usano troppo il servizio e volée.

(*Nota tecnica: queste frequenze complessive sommano semplicemente tutti i tentativi di servizio e volée riusciti e non riusciti. Potrebbero quindi dare peso eccessivo ai giocatori che vanno a rete più spesso. Ho fatto gli stessi calcoli in altri due modi: ponderando equamente ciascun giocatore-partita e ponderando ciascun giocatore-partita per una funzione ln(a+1), dove a è il numero di tentativi di servizio e volée. In entrambi i casi la differenza si è ridotta a quattro punti percentuali, lasciando valide le conclusioni.)

Conclusioni

Sono rimasto molto sorpreso di fronte a questi risultati e non so bene come interpretarli. Il vantaggio è all’incirca il medesimo se un giocatore decide di presentarsi a rete sul servizio o di rimanere a fondo campo. Quindi non è un risultato artificioso dovuto, ad esempio, a uno strano punto in cui Ivo Karlovic o Dustin Brown giocano da fondo, o a quei punti occasionali a basso impatto in cui un giocatore di fondo sceglie il servizio e volée.

Non avendo una spiegazione soddisfacente, mi accontento di una più debole ma che posso fare con più sicurezza: non ci sono prove a supporto del fatto che gli uomini, in generale, debbano andare a rete più spesso dopo il servizio.

Per gli appassionati del servizio e volée, i dati dal circuito femminile sono più incoraggianti, ma comunque di modesto rilievo. Di certo, il 76% di successo agli US Open 2018 è un segnale fuorviante degli effetti positivi che una giocatrice può attendersi dall’applicare una strategia di quel tipo con maggiore costanza. Il riscontro complessivo da circa 2000 partite suggerisce che rimanere a fondo è una decisione altrettanto valida, se non migliore.

The Right Amount of Serve-and-Volley

Classifica Elo e ATP a confronto nell’ascesa di Daniil Medvedev

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 18 ottobre 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Sta prendendo le forme della stagione della svolta per il ventiduenne russo Daniil Medvedev. Due settimane fa ha vinto il suo primo ATP 500 a Tokyo, il terzo torneo dell’anno dopo le vittorie a Sydney e Winston-Salem (oltre ad aver appena raggiunto la semifinale a Basilea, dove ha perso però contro Roger Federer, n.d.t.). Il cammino per il titolo a Tokyo è di particolare rilievo, avendo sconfitto tre giocatori tra i primi 20, quando fino a quel momento Medvedev aveva solo quattro vittorie nel confronti dei primi 20 nel 2018, di cui due contro un Jack Sock in pesante calo di forma.

L’ascesa di Medvedev per ATP e Elo

Visti i risultati, anche la sua classifica è in ascesa. Con la vittoria a Winston-Salem è entrato nei primi 40 e dopo Tokyo ha raggiunto il 22esimo posto. La vittoria al primo turno allo Shanghai Masters gli ha dato il 21esimo posto e le due semifinali di Mosca e Basilea lo porteranno al nuovo massimo in carriera, la posizione 17.

La classifica ufficiale non è niente rispetto ai passi da gigante fatti da Medvedev per arrivare in cima alla classifica associata al sistema delle valutazioni Elo. Dopo aver vinto Tokyo, è salito infatti all’ottavo posto della mia classifica Elo. Ha perso poi due posizioni, rimanendo però tra i primi 10, davanti a Marin Cilic, Kevin Anderson e un altro gruppetto di giocatori che lo precedono nella classifica ATP.

Di fronte a questa discrepanza, a cosa dobbiamo credere? Medvedev fa parte dei primi 10 o è in fondo ai primi 20? Le valutazioni Elo sono premonitrici, anticipano cioè successi a venire nella classifica ufficiale, o creano confusione?

Il sistema Elo è orientato al futuro, disegnato per prevedere l’esito delle partite ponderando vittorie e sconfitte sulla base della qualità dell’avversario. La classifica ufficiale tiene conto in modo diretto dei risultati ottenuti da un giocatore nell’ultimo anno, senza alcuna correzione che rifletta la bravura degli avversari. In teoria, Elo dovrebbe essere tra i due l’indicatore più affidabile per pronosticare un successo di lungo periodo, ma si presuppone che l’algoritmo funzioni correttamente e non reagisca in modo eccessivo a risultati positivi di breve termine. Analizziamo le differenze passate tra le due modalità e vediamo cosa può riservare il futuro a Medvedev.

Precedenti

Dal 1988, 102 giocatori sono entrati nei primi 10 della classifica ufficiale. Qualcuno in più, 113 per l’esattezza, è arrivato tra i primi 10 delle valutazioni Elo. Con 94 nomi in entrambe le categorie, c’è una sovrapposizione quasi totale. Sono otto i giocatori che hanno raggiunto i primi 10 della classifica ufficiale ma non i primi 10 delle valutazioni Elo, mentre 19 giocatori hanno avuto una valutazione Elo tra i primi 10 ma non sono riusciti a meritare lo stesso trattamento dai computer dell’ATP.

La tabella elenca gli otto giocatori entrati tra i primi 10 della classifica ufficiale ma non nell’equivalente classifica Elo.

                       Primi 10 ATP   
Giocatore        Debutto        Numero Settimane  
Svensson         25.03.1991     5  
Massu            13.09.2004     2  
Stepanek         10.07.2006     12  
Melzer           31.01.2011     14  
Monaco           23.07.2012     8  
Anderson         12.10.2015     31  
Carreno Busta    11.09.2017     17  
Pouille          19.03.2018     1

Alcuni potrebbero ancora farcela, specialmente Anderson, attualmente all’undicesimo posto, appena cinque punti dietro Medvedev.

Questo è invece un elenco più lungo di giocatori entrati nei primi 10 delle valutazioni Elo senza nemmeno una settimana tra i primi 10 della classifica ufficiale.

                       Primi 10 Elo   
Giocatore        Debutto        Numero Settimane  
Steeb            22.05.1989     3  
Cherkasov        11.12.1990     1  
Prpic            20.05.1991     1  
Wheaton          08.07.1991     9  
Golmard          03.05.1999     2  
Hrbaty           15.01.2001     2  
Gambill          06.04.2001     6  
Escude           25.02.2002     4  
El Aynaoui       20.05.2002     2
Mathieu          14.10.2002     8  

                       Primi 10 Elo   
Giocatore        Debutto        Numero Settimane
Calleri          19.05.2003     2  
Dent             10.06.2003     10  
Pavel            10.05.2004     2  
Ginepri          24.10.2005     1  
Karlovic         12.11.2007     3  
Bautista Agut    22.02.2016     1  
Kyrgios          04.03.2016     62  
Tsitsipas        13.08.2018     3  
Medvedev         08.10.2018     2

* Considero le settimane in modo leggermente diverso 
per le valutazioni Elo, che vengono generate solo per 
quelle settimane in cui si giocano tornei del circuito 
maggiore o partite di Coppa Davis

È mancato poco alla maggior parte di questi giocatori per entrare nei primi 10 della classifica ATP. David Wheaton ad esempio è arrivato al numero 12. Con l’eccezione di Nick Kyrgios, nessun giocatore è rimasto più a lungo di dieci settimane nei primi 10 Elo senza poi raggiungere lo stesso standard secondo la formula della classifica ATP.

Questo elenco indica che è possibile giocare sufficientemente bene per un breve periodo così da entrare nei primi 10 Elo ma non abbastanza a lungo da riflettere il tipo di successo che viene premiato dalla classifica ufficiale. Circa un giocatore su sei con valutazione Elo da primi 10 non ha mai raggiunto i primi 10 della classifica ATP anche se, come possiamo vedere, la probabilità di rimanere semplicemente una stella delle valutazioni Elo diminuisce rapidamente per ciascuna settimana aggiuntiva tra i primi 10 ATP.

Il caso di Kyrgios

Kyrgios è un esempio perfetto della differenza tra le due modalità di classifica. Ottenere una serie di vittorie a sorpresa è la strada più veloce per salire in classifica Elo, e così ha fatto Kyrgios. Eliminare però il secondo giocatore del mondo, come gli è riuscito all’Indian Wells Masters 2017 contro Novak Djokovic, non ha grande riscontro sulla classifica ATP quando si tratta di un quarto turno. Normalmente, un giocatore in grado di eliminare i più forti è anche capace di accumulare vittorie che migliorano la sua classifica ufficiale. Ma Kyrgios, come praticamente nessun altro giocatore della storia con pari talento, non ha vinto così tante partite.

Elo vs ATP

In sintesi, il sistema Elo porterà sempre alcuni giocatori tra i primi 10, anche se non beneficeranno dello stesso trattamento da parte della classifica ATP. È troppo presto per dire se sarà lo stesso anche per Medvedev.

Dove Elo però veramente si distingue è nell’identificare quei giocatori che diventeranno tra i più forti prima della classifica ufficiale. Dei 94 giocatori che dal 1988 hanno debuttato nei primi 10, Elo è stato il primo sistema a riconoscere che un giocatore appartenesse a quell’élite per 76 di essi, cioè meglio dell’80%. La classifica ufficiale ha preceduto Elo per 10 giocatori e c’è stata una situazione di parità temporale in altre otto volte. In media, i giocatori sono entrati tra i primi 10 della classifica Elo circa 32 settimane prima della classifica ufficiale dell’ATP.

La tabella elenca le undici occorrenze con maggiore divario per quando Elo è arrivato in anticipo, insieme al debutto tra i primi 10 dei Fantastici Quattro.

Giocatore      Debutto ATP  Debutto Elo  Sett. Diff
Puerta         25.07.2005   12.06.2000   267  
Rosset         10.07.1995   05.11.1990   244  
Gonzalez       24.04.2006   07.10.2002   185  
Canas          09.05.2005   05.08.2002   144  
Youzhny        13.08.2007   15.11.2004   143  
Gaudio         07.06.2004   29.04.2002   110  
Gasquet        09.07.2007   20.06.2005   107  
Berdych        23.10.2006   11.10.2004   106  
Soderling      19.10.2009   08.10.2007   106  
Philippoussis  29.03.1999   24.03.1997   105  
Sock           06.11.2017   18.01.2016   94  
                                                       
Giocatore      Debutto ATP  Debutto Elo  Sett. Diff  
Federer        20.05.2002   19.02.2001   65  
Murray         16.04.2007   21.08.2006   34  
Djokovic       19.03.2007   31.07.2006   33  
Nadal          25.04.2005   21.02.2005   9

Nel caso ve lo chiedeste, seguono i dieci giocatori per i quali la classifica ATP ha battuto sonoramente Elo.

Giocatore      Debutto ATP  Debutto Elo  Sett. Diff  
Wawrinka       12.05.2008   25.10.2010   128  
Ferrer         30.01.2006   28.05.2007   69  
Tipsarevic     14.11.2011   13.05.2012   26  
Schuettler     09.06.2003   25.08.2003   11  
Robredo        08.05.2006   24.07.2006   11  
Verdasco       02.02.2009   04.06.2009   9  
Costa          21.04.1997   26.05.1997   5  
Almagro        25.04.2011   05.22.2011   4  
Isner          19.03.2012   15.04.2012   4  
Novak          14.10.2002   21.10.2002   1

È evocativo che ci siano, in media, 32 settimane di differenza. Come detto, le valutazioni Elo sono ottimizzate per fare previsioni di un futuro ravvicinato quindi, almeno sulla carta, riflettono il livello di bravura attuale di un giocatore. L’algoritmo della classifica ATP tiene conto del rendimento su un arco temporale di 52 settimane, ponderando allo stesso modo la prima e l’ultima settimana. Mettendo da parte miglioramenti o declini dovuti all’età, questo significa che la classifica ATP, in media, fornisce indicazione sul rendimento di un giocatore risalente a 26 settimane fa. Se Medvedev continua a eliminare giocatori tra i primi 20 e vincere di nuovo uno o anche due titoli 500, potrebbe essere a 26 o 32 settimane di distanza dall’ingresso nei primi 10.

Conclusioni

Elo non è concepito per previsioni di lungo termine: i programmi adatti a questa finalità devono essere, in larga parte, ancora inventati. E, occasionalmente, Elo assegna un’alta valutazione a giocatori che non hanno un rendimento in grado di sostenerla. In generale però, una valutazione Elo superlativa è segno che un risultato simile nella classifica ufficiale non è troppo lontano. A oggi, Kyrgios ha disatteso le aspettative al riguardo, ma un debutto di Medvedev nei primi 10 tra qualche tempo è una scommessa dalle quote favorevoli.

Daniil Medvedev’s Leading Elo Indicator

Ivo Karlovic e il tiebreak d’ordinanza

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 21 ottobre 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Ivo Karlovic sta per raggiungere un risultato mai ottenuto prima d’ora. Al pari di John Isner, durante la carriera Karlovic ha ampliato la definizione di gioco mono-dimensionale. I giocatori di statura imponente sono in grado di vincere così tanti punti al servizio da rendere agli avversari quasi impossibile fare un break, limitando nel contempo le conseguenze delle loro stesse mancanze alla risposta. In presenza di un giocatore che massimizza la probabilità di tenere il servizio, il tiebreak sembra inevitabile.

Più del 50% dei set al tiebreak

Nel 2018, Karlovic ha portato questo concetto a un nuovo livello. Compresa la semifinale del Calgary Challenge (vinta per 7-6 7-6), il giocatore croato di 211 cm ha giocato 42 partite, per un totale di 115 set e 61 tiebreak (Karlovic ha poi vinto il Calgary Challenger con il punteggio di 7-6 6-3, n.d.t.). In termini percentuali, significa che un set va al tiebreak il 53% delle volte. Dal 1990, tra i giocatori con almeno 30 partite a stagione sul circuito maggiore, nelle qualificazioni e nei Challenger, nessuno è mai andato oltre il 50%. Anche avvicinarsi a questa soglia è decisamente atipico per un giocatore. Meno del 20% dei set sul circuito maggiore arriva a un punteggio di 6-6, ed è raro per un qualsiasi giocatore raggiungere il 30%.

Durante questa stagione, solo Isner e Nick Kyrgios si sono iscritti al gruppo con almeno il 30% dei set al tiebreak, di cui naturalmente Karlovic fa parte. Anche Reilly Opelka, la promessa americana di 211 cm, ha collezionato solo 31 tiebreak su 109 set, per una frequenza più modesta del 28.4%. Karlovic è davvero di una classe a parte. Isner ci è andato vicino nel 2007, l’anno in cui è emerso sul circuito Challenger, giocando 51 tiebreak in 102 sets. Come mostra la tabella, l’elenco dei primi 10 di tutti i tempi inizia a essere un po’ ripetitivo.

Class  Anno   Giocatore  Set   TBs  TB%  
1      2018   Karlovic   116   62   53.0%  
2      2007   Isner      102   51   50.0%  
3      2005   Karlovic   118   56   47.5%  
4      2016   Karlovic   146   68   46.6%  
5      2017   Karlovic   91    42   46.2%  
6      2006   Karlovic   106   48   45.3%  
7      2015   Karlovic   168   76   45.2%  
8      2018   Isner      149   65   43.6%  
9      2001   Karlovic   78    34   43.6%  
10     2004   Karlovic   140   61   43.6%

* Il totale di Karlovic e Isner comprende 
le partite fino al 21 ottobre 2018

Per una maggiore varietà, la tabella mostra i quindici differenti giocatori con la più alta frequenza di tiebreak nella singola stagione.

Class  Anno   Giocatore  Set   TBs  TB%  
1      2018   Karlovic   116   62   53.0%  
2      2007   Isner      102   51   50.0%  
3      2004   Delic      95    37   38.9%  
4      2008   Llodra     117   45   38.5%  
5      2008   Guccione   173   65   37.6%  
6      2002   Waske      109   40   36.7%  
7      1993   Rusedski   99    35   35.4%  
8      2017   Opelka     115   40   34.8%  
9      2005   Arthurs    95    33   34.7%  
10     2004   Norman     97    33   34.0%  
11     2001   Ljubicic   148   50   33.8%  
12     2004   Mirnyi     137   46   33.6%  
13     2014   Groth      172   57   33.1%  
14     2005   Carraz     98    32   32.7%  
15     2007   Wolmarans  80    26   32.5%

Karlovic si trova davvero in un mondo a sé. Compirà quarant’anni a febbraio 2019, ma l’età ha solo marginalmente scalfito l’efficacia del servizio. Pur avendo raggiunto la classifica massima nell’ormai lontano 2008 al 14esimo posto, è più recentemente che il suo servizio ha funzionato a pieno regime. Nel 2015, ha vinto più del 75% dei punti al servizio, tenendo il 95.5% dei game al servizio. Si tratta in entrambi i casi di massimi in carriera. Le statistiche al servizio degli ultimi anni sono rimaste tra le migliori di sempre, con il 73.5% dei punti vinti nel 2018, anche se, con il crollo in classifica, sono arrivate contro avversari più deboli in partite di qualificazione o di Challenger.

L’età si è però fatta sentire sul gioco alla risposta. Dal 2008 al 2012, riusciva a fare un break in più di un’opportunità su dieci, dal 2016 al 2018 la percentuale è scesa all’8%. Nessuno dei due valori è di grande impatto – Isner e Kyrgios sono gli unici giocatori regolarmente presenti sul circuito a fare break in meno del 17% dei game nel 2018 – e la differenza da un massimo del 12% nel 2011 a un minimo del 7.1% in questa stagione permette di capire come mai Karlovic sta giocando il più alto numero di tiebreak di sempre.

Conclusioni

Per via dell’altezza, di un profilo caratterizzato da statistiche agli estremi e di una propensione (o forse necessità) ad andare a rete, Karlovic è da tempo uno dei giocatori “diversi” del circuito. Con l’aumentare dell’età e con un’attitudine al tennis ancora più mono-dimensionale, sembra solo una naturale conseguenza che riscriva i suoi stessi record, continuando a ignorare il richiamo delle comodità post ritiro per colpire l’ennesimo ace e giocare l’ennesimo tiebreak.

Ivo Karlovic and the Odds-On Tiebreak

Il futuro è roseo per Aryna Sabalenka

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 13 ottobre 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Sono passate quasi due settimane dall’ultimo titolo di Aryna Sabalenka e sembra strano che non abbia ancora vinto il successivo. Pur rispettando l’ascesa di Naomi Osaka, la bielorussa è al momento l’astro nascente più luminoso sul circuito femminile, con due vittorie negli ultimi due mesi e altre due finali nella prima parte della stagione. Nel 2018, la ventenne ha un record di 8 vinte e 4 perse contro le prime 10, avendo battuto Caroline Wozniacki, Petra Kvitova, Elina Svitolina e Karolina Pliskova.

Serve tempo prima che queste vittorie si traducano in posizioni di classifica. Sabalenka si è inserita nelle prime 20 dopo aver vinto a New Haven in agosto, issandosi fino all’undicesimo posto la scorsa settimana, anche se dovrebbe scendere al 14esimo per non essere riuscita a difendere il titolo a Tianjin. La classifica ufficiale però reagisce lentamente, le valutazioni Elo invece rispondono in modo molto più immediato, specialmente in presenza di vittorie a sorpresa di alto calibro come quelle messe a segno da Sabalenka quasi ogni settimana.

L’ascesa di Sabalenka nelle valutazioni Elo

La valutazione Elo di Sabalenka è salita con prepotenza in cima a questa speciale classifica. A seguito delle partite della scorsa settimana, è al secondo posto dietro a Simona Halep, ma più vicina a Halep che al terzo posto di Wozniacki. Dopo aver sconfitto Caroline Garcia a Pechino, Sabalenka ha per breve tempo raggiunto il numero 1 delle valutazioni Elo prima di cederlo nuovamente con la sconfitta nei quarti di finale contro Qiang Wang. In ogni caso, il numero 2 complessivo è molto più indicativo di un futuro roseo di quanto non lo sia l’undicesimo posto della classifica ufficiale della WTA.

Se si osservano solo le partite su cemento, le previsioni Elo sono ancora più ottimistiche, perché mettono Sabalenka al primo posto. Elo darebbe la bielorussa leggermente favorita contro Halep in una partita sul cemento e – ipotizzando che entrambe ricevano un tabellone simile per difficoltà – vedrebbe Sabalenka la favorita iniziale per gli Australian Open 2019.

Quali considerazioni dobbiamo dedurne? È arrivato il momento di definire Sabalenka la nuova superstar o dovremmo trattare le valutazioni Elo con più circospezione? Per avere un’idea migliore, analizziamo le giocatrici che sono arrivate in cima alla classifica Elo in passato.

Precedenti

Dal 1984, solo 29 giocatrici (tra cui Sabalenka) hanno raggiunto il numero 1 o il numero 2 della classifica Elo su tutte le superfici. Diciannove di queste sono arrivate anche al numero 1 della classifica ufficiale WTA. La tabella mostra le altre dieci.

Giocatrice     Pos. massima  
Kvitova        2  
Martinez       2  
Novotna        2  
Radwanska      2  
Svitolina      3  
Sabatini       3  
Dementieva     3  
Stosur         4  
Konta          4  
Sabalenka      11

È un gruppo illustre di cui far parte: Svitolina potrebbe ancora raggiungere il numero 1 e da alcune delle altre si attendevano risultati ben più importanti di quelli poi ottenuti. L’unica presenza su cui fare attenzione è Johanna Konta, non la compagnia migliore per una giovane emergente, visto che non è entrata tra le prime 2 se non vicino al compimento dei 26 anni.

L’elenco delle giocatrici arrivate al numero 1 delle valutazioni Elo specifiche per superficie è ancora più selezionato: dal 1984, Sabalenka è solo la 17esima giocatrice e 14 su 17 sono state anche numero 1 della classifica ufficiale, con la sola eccezione di Svitolina e Konta.

Conclusioni

Se esiste un momento buono per indicare una giocatrice al 14esimo posto della classifica come il futuro del tennis femminile, direi che è proprio questo. Elo non è un sistema perfetto, ed è possibile che l’algoritmo abbia eccessivamente tenuto conto di una serie di risultati a sorpresa in una stagione in cui ce ne sono stati in abbondanza. Ma se il sistema ha fatto un errore, è uno di quelli che non commette spesso.

Sabalenka ha vinto solo quattro partite di un tabellone principale Slam, quindi forse una vittoria agli Australian Open 2019 è un pronostico molto generoso. Su un orizzonte temporale più lungo però, un titolo Slam potrebbe semplicemente aprire le porte a un futuro di grandi successi.

The Rosy Forecast of Arnya Sabalenka’s Elo Rating

La corsa alla vetta della classifica dei Masters è molto più incerta di quanto si pensi

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 12 ottobre 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Novak Djokovic ha appena conquistato la semifinale dello Shanghai Masters 2018, a due vittorie dal 32esimo titolo Masters che lo porterebbe a una sola distanza da Rafael Nadal, al primo posto dei vincitori di sempre con 33 titoli. Roger Federer, in campo per il suo quarto di finale (Federer è poi arrivato in semifinale perdendo da Borna Coric, n.d.t.), è di poco indietro con 27 titoli in carriera.

Il numero di Masters vinti non ha la stessa importanza del numero di Slam vinti, ma si tratta in ogni caso di tornei estremamente rilevanti nel palmares di un giocatore. Da un lato sono molto più numerosi e la combinazione di superfici – più terra battuta e no erba, e un solo evento indoor sul cemento – permette di apprezzare l’estensione di talento e bravura di chi ne emerge vittorioso. Non sorprende infatti che Nadal, Djokovic e Federer siano ben distanti dal resto del gruppo in questa speciale classifica, come lo sono in molte altre.

Non tutti i Masters sono uguali tra loro

A Madrid 2017, Nadal ha dovuto battere Djokovic, il gigante della terra Dominic Thiem e la sempre mina vagante Nick Kyrgios. Sei mesi dopo a Parigi Bercy, Jack Sock ha vinto il suo unico Masters con una strada in discesa che comprendeva un solo giocatore nei primi 35 del mondo. Come accade negli Slam, anche nella vittoria di un Masters incide pesantemente la fortuna e quando ci concentriamo sui semplici totali, confidiamo nel fatto che la fortuna si compensi.

La fortuna però non si compensa, nemmeno per i giocatori di vertice che hanno giocato Masters per più di una decade e accumulato decine di titoli. Per tenere conto della qualità degli avversari e della difficoltà di ciascuna vittoria finale, utilizzo lo stesso algoritmo elaborato in passato per valutare gli Slam [1].

La formula restituisce un numero per singolo titolo Masters, che se equivale a 1 rappresenta la media, se minore di 1 una vittoria più facile della media e se maggiore di 1 una più difficile. La vittoria di Sock a Parigi Bercy è stata la più fortunosa degli ultimi anni, con un valore di 0.39, rispetto al titolo di Madrid 2007 di David Nalbandian, il più difficile con un indice di 1.92. A parte questi due estremi, quasi ogni vittoria rientra nell’intervallo tra 0.5 e 1.5.

La classifica di tutti i tempi

Iniziamo dai primi 10 in termini di Masters “corretti”. La tabella mostra i risultati della mia formula, insieme al numero di titoli effettivi di ciascun giocatore e la valutazione media dei Masters che ha vinto in carriera.

Giocatore   Corretti   Effettivi  Media  
Nadal       35.4       33         1.07  
Djokovic    35.0       31         1.13  
Federer     28.0       27         1.04  
Agassi      15.0       17         0.88  
Murray      15.0       14         1.07  
Sampras     11.2       11         1.02  
Muster      7.5        8          0.94  
Chang       6.4        7          0.91  
Becker      5.4        5          1.08  
Courier     5.0        5          1.00

Boris Becker e Jim Courier non sono i soli ad aver vinto cinque Masters, sono però gli unici ad averlo fatto contro avversari medi o più forti. Anche Andy Roddick ne ha vinti cinque, ma l’algoritmo lo premia per quasi quattro, ed è ancora più duro con Marat Safin, le cui cinque vittorie diventano solo 3.2 Masters corretti.

La storia di rilievo però è in cima all’elenco, perché la differenza tra Nadal e Djokovic si assottiglia fino a quasi eliminarsi. Entrambi hanno vinto contro avversari più difficili della media (e spesso dovendo battersi a vicenda), ma è Djokovic ad aver avuto il percorso più complicato. Se vince a Shanghai (come è poi riuscito a fare battendo Coric in finale con il punteggio di 63 64, n.d.t.) sorpasserà Nadal al primo posto.

Si fa notare anche la quasi parità tra Andre Agassi e Andy Murray. Agassi ha 3 vittorie in più, che sono però arrivate contro avversari più deboli rispetto a tutti gli altri dei primi 10. Murray si è trovato di fronte avversari più simili a quelli di Nadal e Djokovic, non sorprende quindi vedere la sua valutazione di difficoltà ben al di sopra dell’1.0.

La debolezza di Parigi Bercy

La vittoria di Sock nel 2017 è stata senza dubbio facile, come spesso è accaduto per Parigi Bercy. Con l’eccezione della singola edizione dell’Essen Masters, se paragonate agli altri tornei della categoria Masters le vittorie a Parigi Bercy sono state quelle con lo sconto maggiore.

Torneo             Anni    Difficoltà media  
Madrid (terra)     10      1.18  
Roma               29      1.09  
Indian Wells       29      1.07  
Stoccarda          6       1.05  
Stoccolma          5       1.04  
Amburgo            19      1.02  
Miami              29      1.01  
Monte Carlo        29      0.98  
Canada             29      0.97  
Cincinnati         29      0.97  
Madrid (cemento)   7       0.97  
Shanghai           9       0.95  
Parigi Bercy       28      0.84  
Essen              1       0.80

A Parigi Bercy si è giocato su tappeto fino al 2006, e questa potrebbe essere una spiegazione. Nei primi calcoli ho usato valutazioni Elo specifiche per tappeto, che sono limitate da un campione relativamente ridotto. Ho provato poi con valutazioni specifiche per cemento e, pur con variazioni individuali, il risultato complessivo è rimasto sostanzialmente identico. Parigi Bercy era un torneo molto debole durante gli anni in cui si usava il tappeto, si è rafforzato nel tempo e sono convinto che questa sia una caratteristica del periodo anni ’90 inizio anni ’00, non semplicemente una conseguenza di stranezze nell’applicazione delle valutazioni Elo.

Generalmente parlando, le superfici veloci sembrano abbassare le valutazioni. Il mio sospetto è che essendo tornei nella maggior parte dei casi al meglio dei 3 set, è più probabile che risultati a sorpresa nei primi turni si verifichino sulle superfici più veloci. Campi rapidi quindi spianano il cammino del vincitore, come è stato certamente per Sock l’anno scorso. Ma non è automatico: le cinque vittorie più difficili sono arrivate in realtà sul cemento, e una proprio a Parigi Bercy.

Nalbandian al massimo

Alla fine del 2007, Nalbandian ha scritto due delle settimane più gloriose nella storia del tennis. A Madrid, ha sconfitto Nadal ai quarti, Djokovic in semifinale e Federer in finale, avendo in precedenza battuto Tomas Berdych e Juan Martin Del Potro. Due settimane più tardi, ha di nuovo sconfitto Federer e Nadal a Parigi Bercy, oltre a vittorie contro David Ferrer, Richard Gasquet e Carlos Moya.

Con un indice rispettivamente di 1.92 e 1.70, sono due delle tre vittorie più difficili da quando la Masters Series è stata istituita (strano a dirsi, ma l’unico in grado di fermare Nalbandian durante quel magico autunno è stato Stanislas Wawrinka, che lo ha battuto a Vienna e Basilea. Wawrinka è il giocatore le cui vittorie Slam sono al primo posto nella graduatoria di difficoltà).

La tabella elenca i 20 titoli Masters per indice di difficoltà.

Anno  Torneo        Superficie  Vincitore    Difficoltà  
2007  Madrid        Cemento     Nalbandian   1.92  
2014  Canada        Cemento     Tsonga       1.78  
2007  Parigi Bercy  Cemento     Nalbandian   1.70  
2007  Canada        Cemento     Djokovic     1.68  
2009  Indian Wells  Cemento     Nadal        1.61  
2009  Madrid        Terra       Federer      1.52  
2017  Madrid        Terra       Nadal        1.52  
2016  Madrid        Terra       Djokovic     1.51  
2011  Indian Wells  Cemento     Djokovic     1.50  
2013  Indian Wells  Cemento     Nadal        1.50
Anno  Torneo        Superficie  Vincitore    Difficoltà  
2010  Canada        Cemento     Murray       1.48  
2011  Roma          Terra       Djokovic     1.48  
2012  Roma          Terra       Nadal        1.47  
2010  Indian Wells  Cemento     Ljubicic     1.45  
2004  Amburgo       Terra       Federer      1.44  
2015  Cincinnati    Cemento     Federer      1.44  
2013  Roma          Terra       Nadal        1.43  
2015  Canada        Cemento     Murray       1.43  
2008  Monte Carlo   Terra       Nadal        1.42  
2015  Madrid        Terra       Murray       1.42

Nalbandian e Jo Wilfried Tsonga si distinguono per essere ai primi due posti, ma dopo di loro i nomi sono quasi solo quelli dei Fantastici Quattro. Anche nel gruppo successivo di difficoltà, Djokovic, Nadal e Federer riempiono 7 posti su 10.

Conclusioni

Come qualsiasi altra modifica a statistiche di alto profilo, rivedere i titoli Masters in funzione della difficoltà non aiuta esattamente a chiarire il dibattito su quale sia il giocatore più forte di sempre, perché si riferisce a uno dei tanti aspetti della conversazione. Tuttavia, rendersi conto delle innumerevoli difficoltà che il vincitore di un Masters deve affrontare è un richiamo d’obbligo all’evidenza che non tutte le vittorie sono identiche tra loro, anche se alla fine valgono sempre 1000 punti per la classifica generale.

Note:

[1] Così ho descritto originariamente il mio algoritmo. Per stimare la difficoltà complessiva del tabellone affrontato da un vincitore Slam, utilizzo Elo per misurare il livello di gioco di un campione Slam medio, un sistema di valutazione che attesta la bravura di un giocatore in funzione del suo record di partite vinte-perse e della qualità degli avversari. Calcolo poi la probabilità per il suddetto campione Slam medio di vincere tutte e sette le partite contro gli avversari che ciascun vincitore Slam ha dovuto affrontare nello specifico torneo vinto.

Per ogni vittoria, assegno al campione Slam la differenza tra 1 e la previsione Elo: se un campione Slam medio aveva sulla superficie del torneo una probabilità del 90% di vincere la partita, il giocatore riceve 0.1 punti (1 – 0.9); se un tipico vincitore Slam aveva il 20% di probabilità, il giocatore riceve 0.8 punti. Sommando tutte le partite di ogni vincitore e applicando l’algoritmo agli ultimi decenni di Slam, si ottiene un punteggio medio di 1.23 per titolo, da cui la divisione di ogni somma per 1.23 al fine di normalizzare i risultati.

Per i tornei Masters, in cui le vittorie per il titolo sono cinque o sei rispetto alle sette di uno Slam, la divisione è per 1.34 invece di 1.23.

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