Esiste un calo emotivo dopo una finale ATP?

di Chapel Heel // HiddenGameOfTennis

Pubblicato l’1 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Se siete come me, quando vedete due giocatori in finale e sapete che la settimana seguente saranno impegnati in un altro torneo, vi chiedete come potranno giocare poco dopo aver disputato una finale. Anche se poi nelle mie previsioni ufficiali non ne tengo conto, mentalmente penso che faranno più fatica, perché sembra che, arrivando da una finale, possano forse subire un calo mentale nei primi turni. Vediamo se la mia teoria da profano è supportata dai numeri.

Stanchezza fisica, mentale ed emotiva

Una parte del quesito verte sulla stanchezza fisica e mentale derivante dal giocare molte partite in poco tempo. Per raggiungere la finale, le teste di serie devono aver giocato almeno quattro partite, le non teste di serie che non devono passare per le qualificazioni almeno cinque e i qualificati almeno sette. Questo vale solo per i tornei con 28 giocatori nel tabellone principale. È tema che Jeff Sackmann ha già affrontato su HeavyTospsin, e ne suggerisco la lettura.

Un’altra parte non coinvolge la fatica, ma lo sforzo emotivo. Una finale del circuito maggiore è già di per sé un’impresa, anche per chi ci arriva regolarmente. A maggior ragione, i giocatori che ci riescono di rado, affrontano vere e proprie montagne russe emotive. Pur affermando sempre che la settimana è stata fantastica anche di fronte a una sonora sconfitta, pensate che rientrando nello spogliatoio si congratulino con il proprio angolo? Sarebbe comprensibile quindi se gli sconfitti avessero difficoltà nel farsi trovare pronti per la prima partita della settimana seguente.

Naturalmente, i vincitori sono contenti, quindi perché dovrebbero provare un vuoto emotivo nei primi turni del torneo successivo? Non sono un professionista di tennis, ma il mio è un lavoro ad alta pressione e responsabilità, e la fine di un progetto è accompagnata da soddisfazione ma anche da un po’ di rilassamento emotivo. I giorni conclusivi hanno un sapore speciale che manca in quelli che arrivano subito dopo. Cala l’adrenalina e ci si accorge di aver davvero bisogno di dormire. Forse succede lo stesso per i vincitori di un torneo.

Quali finali dovremmo esaminare?

Ho considerato tutti i finalisti a partire dal 2007. Si tratta di circa 1600 partite-giocatore. Naturalmente, ho poi dovuto restringere il campione a quei giocatori che hanno giocato la settimana successiva, un numero molto più ridotto. Per alcuni è il calendario personale, per altri è quello dell’ATP (ad esempio, non ci sono tornei la settimana che segue la conclusione di uno Slam e non ho considerato la Coppa Davis, perché sono partite per le quali i giocatori si fanno trovare pronti più facilmente).

Non ho incluso le circostanze in cui il torneo successivo inizia a metà della settimana, come ad esempio l’Indian Wells Masters, nel quale i finalisti di Dubai, Acapulco e San Paolo non scenderebbero in campo, al più presto, prima di mercoledì. Un tempo sufficiente cioè a cancellare qualsiasi strascico emozionale. Ho escluso anche le situazioni in cui un giocatore è arrivato a una finale ATP per poi giocare subito dopo un torneo Challenger.

Come ci si poteva aspettare, sono i giocatori di vertice a dominare l’elenco delle finali. E lo vedo come un problema nel determinare l’esistenza di uno strascico emozionale. Perché in caso affermativo, sono convinto che giocatori come Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic e altri che sono spesso in finale non la vivano allo stesso modo di altre categorie di giocatori (e Federer è un robot).

Non voglio che giocatori che arrivano spesso in finale rendano i risultati inaccurati, ma non intendo nemmeno escludere categoricamente determinati giocatori per una percezione personale sulla loro resistenza a strascichi emotivi dopo una finale.

Due limitazioni

Vista di fatto però l’assidua presenza nell’ultima giornata, devo trovare un modo per contenere l’effetto distorsivo che tutte le finali dei giocatori di vertice avrebbero nel campione di dati. Ho quindi introdotto due tipi di limitazioni:

  • nessun giocatore ha partite che seguono una finale per più delle prime 15 finali. Chi ha giocato più di 15 finali è a un livello talmente alto, e possiede così tanta esperienza nel trovarsi in fondo al torneo, che è molto improbabile possa mostrare segni di strascico emotivo superata quella soglia
  • nessun giocatore ha più di 5 partite che seguono una finale dopo che è entrato tra i primi 10, in modo da arginare proprio chi ha avuto una crescita improvvisa e, anche dopo la precedente limitazione, ritrovarsi comunque 15 finali interamente conteggiate. Questa limitazione era di fatto solo di un’impostazione di controllo, che non è intervenuta poi frequentemente.

Come conseguenza di queste regole (e tornando indietro solo fino al 2007), ci sono molti giocatori di massimo calibro a non essere rappresentati. Ad esempio Federer, il quale all’inizio del 2007, aveva già giocato 15 partite che seguono una finale e aveva giocato almeno 5 finali dopo essere entrato nei primi 10. Non ci sono dunque partite di Federer nel campione. E lo stesso vale per alcuni giocatori di altro profilo che si sono ritirati, come Lleyton Hewitt, che ha giocato qualche finale dopo il 2006, nessuna delle quali è inclusa perché sono intervenute le limitazioni prima del periodo di riferimento dello studio.

Toh, che scoperta!

In generale, i finalisti vincono le partite che seguono una finale. Prima di entrare nel dettaglio, analizziamo alcune delle percentuali aggregate. La tabella dell’immagine 1 fornisce molte informazioni che necessitano di spiegazione.

Le prime tre colonne riportano il rendimento alla settimana successiva dei giocatori nelle partite che seguono una finale. La prima colonna ignora l’eventualità di un bye al primo turno del torneo seguente. La seconda colonna identifica solo i giocatori che dopo la finale hanno giocato il primo turno del torneo seguente. La terza colonna identifica solo i giocatori che hanno ricevuto un bye nel torneo seguente, per i quali quindi la prima partita dopo la finale è stata il secondo turno (se vi sta girando la testa, è normale).

Guardiamo ora le righe. La prima riga rappresenta tutti i giocatori finalisti della settimana precedente, a prescindere dal risultato che hanno conseguito. La seconda e terza riga identificano rispettivamente i vincitori della finale e i giocatori che invece l’hanno persa.

Ad esempio, i vincitori della finale vincono il 70.5% delle volte in cui giocano al primo turno nella settimana successiva, e l’83.5% delle volte se usufruiscono di un bye e non giocano fino al secondo turno (a prescindere dal turno, i vincitori della finale vincono la partita che segue il 72.5% delle volte). Ho inoltre aggiunto altre tre colonne (“Seconda Partita”) per il cui significato rimando alla nota in corsivo.

IMMAGINE 1 – Percentuali aggregate del rendimento dei giocatori nella prima e seconda partita che seguono la finale

Nota

Il secondo gruppo di colonne rappresenta il rendimento dei finalisti della settimana precedente nella seconda partita del torneo che segue, avendo vinto la prima partita. Pur non rilevando ai fini dell’articolo, visto che era disponibile ho ritenuto inserire quest’informazione. Colonne e righe si leggono nello stesso modo della “Prima Partita”, solo che in questo caso sono per una partita dopo.

Le partite che seguono una finale giocate al primo turno

Alla ricerca di un effetto da strascico emozionale, mi concentrerò sul primo turno (la colonna colorata), perché i giocatori con un bye hanno più tempo per superare un eventuale abbandono di adrenalina. Sono rimasto a questo punto con poco meno di 500 partite-giocatore, di cui 266 sul cemento, 183 sulla terra battuta e 48 sull’erba (motivo per cui i risultati su questa superficie potrebbero risentire significativamente delle dimensioni ridotte).

Pensiamo a cosa ci sta dicendo la colonna colorata ma, ancora più importante, a cosa non ci sta comunicando. Ci dice in primo luogo che i finalisti della settimana precedente vincono solitamente la partita di primo turno nel torneo che segue. Non è proprio così sorprendente, perché, in media, chi raggiunge una finale è certamente all’altezza di vincere primi turni con continuità.

Ci dice inoltre che i vincitori della finale hanno molta più probabilità di vincere le partite che seguono una finale, rispetto ai giocatori che l’hanno persa. Anche qui, non ci sono sorprese, visto che normalmente sono i giocatori migliori a vincere, cioè gli stessi che hanno più probabilità di vincere al primo turno la settimana successiva.

Quello che non ci dice la seconda colonna è se quei numeri sono di qualche indicazione o, detto in altro modo, se evidenziano effettivamente uno strascico dalla finale della settimana precedente. Che il vincitore della settimana precedente vinca anche il 70% delle partite che seguono una finale è per lui confortante, ma se ci si attende che ne vinca l’80%, allora il 70% non è più un gran risultato, non è così? All’opposto, se un giocatore vince una finale e subito dopo va a giocare agli US Open perdendo al primo turno da Djokovic, non ha perso quella partita perché aveva giocato nella finale della settimana precedente.

Risultati attesi nelle partite di primo turno che seguono una finale

Quello che dobbiamo fare quindi è conoscere il risultato atteso delle partite che seguono la finale e, in aggregato, confrontarlo con gli esiti effettivi di quelle stesse partite. A questo proposito ho usato valutazioni Elo specifiche per superficie e relative al momento in cui si sono giocate le partite. Non è una versione corretta di Elo – a differenza delle valutazioni Elo che uso per i pronostici – in parte perché non ho idea se quegli aggiustamenti abbiano senso per periodi più indietro nel tempo e in parte perché richiederebbero molti più calcoli. Con o senza intervento, Elo comunque non è perfetto nelle previsioni, ma è estremamente valido, specialmente sui grandi numeri.

Tutti i finalisti

L’immagine 2 mostra la percentuale di vittoria attesa nelle partite che seguono una finale su diverse superfici per tutti i finalisti della settimana precedente, a prescindere dal risultato.

IMMAGINE 2 – Percentuale di vittoria attesa dei finalisti nelle partite che seguono la finale

Si nota un divario importante tra la percentuale di vittoria attesa Elo e quella effettiva. Ritornando alla prima tabella, una percentuale di vittoria del 62.2% nelle partite di primo turno dopo una finale non sembra più così valida. Elo si attende che quel numero sia intorno al 67.5%.

Vincitori della finale

Proviamo a scomporre ulteriormente iniziando con i numeri dei vincitori della settimana precedente.

IMMAGINE 3 – Percentuale di vittoria attesa dei vincitori nelle partite che seguono la finale

Anche questa tabella è interessante. C’è qualche differenza marginale nei risultati attesi per i vincitori, ma nulla che non derivi da un normale margine di errore. I vincitori della finale vincono le partite di primo turno della settimana successiva con quasi la stessa frequenza che ci si aspetta da loro.

Sconfitti in finale

Di fronte a un divario importante tra risultati attesi ed effettivi includendo tutti i finalisti, e praticamente nessuna differenza se si considerano solo i vincitori della finale, si capisce da dove arrivi quel divario, come mostra l’immagine 4.

IMMAGINE 4 – Percentuale di vittoria attesa degli sconfitti nelle partite che seguono la finale

A prescindere dalla superficie, i giocatori che hanno perso la finale ottengono risultati di molto inferiori alle attese nella partita che segue la finale. L’effetto è più pronunciato sulla terra, forse dovuto alla presenza di più finalisti a sorpresa che giocano al di sopra del livello abituale, a cui ritornano la settimana successiva. C’è un divario enorme sull’erba, ma si tratta solo di circa 25 partite, e mi aspetto che, con dati migliori a disposizione, si avvicini a quanto accade sul cemento.

Confesso di essere un po’ stupito. Ed è strano, se penso a come, prima di quest’analisi, percepissi che i finalisti avessero minori possibilità. La ragione sta nel fatto che durante la raccolta e sistemazione dei dati, di cui molti a mano, non riuscivo a cogliere l’effetto. Mi aspettavo che i dati dimostrassero ancora una volta l’infondatezza della mia sensazione, mentre invece sembra che io sbagli solo a metà.

Esiste quindi con certezza un calo emotivo per il giocatore che ha perso la finale?

Sarebbe una conclusione affrettata. Non ho isolato un effetto di strascico emotivo indipendente da altre variabili, come la fatica accumulata nelle partite della settimana precedente. Non sarebbe sconvolgente sapere che il giocatore sconfitto in finale ha perso perché era già affaticato, o quantomeno lo era più del vincitore, anche perché è probabile che abbia giocato più partite per arrivarci. E non ho nemmeno tenuto conto del livello competitivo espresso in finale. Chi ha perso la finale rende ancora peggio la settimana successiva se la sconfitta è stata netta? O rende meglio se ha portato il vincitore a un passo dalla sconfitta? Lo studio non risponde a queste domande. A essere onesti, non ci ho pensato se non dopo aver elaborato i dati e iniziato a scrivere. In ogni caso, il fatto è che servirebbe una quantità decisamente maggiore di dati punto per punto per esprimere conclusioni progressivamente più rifinite.

Sarebbe curioso verificare anche quelle circostanze in cui la finale e la partita che segue la finale si sono giocate su una superficie diversa. Solo non si troverebbero mai dati a sufficienza in uno stesso periodo da poter dedurre considerazioni definitive su quel punteggio.

Sento di poter dire con un certo grado di sicurezza che la sconfitta in una finale genera una forma di effetto negativo sulla partita di primo turno della settimana successiva, per molteplici cause. E che, di contro, non c’è un apparente crollo delle endorfine accumulate nella vittoria in finale della settimana precedente.

Dammi il cinque, dannazione!

Una teoria scientifica sostiene che sforzarsi a sorridere anche nei momenti in cui non si è felici o di tutt’altra disposizione d’animo è di beneficio immediato e di aiuto per recuperare il buonumore. In sostanza, si inganna il cervello azionando il movimento del muscolo associato al senso di felicità.

Forse i giocatori dovrebbero dare il cinque al proprio angolo anche dopo una sconfitta in finale. Potrebbe essere importante tanto quanto recuperare dalla fatica della partita con il bagno nella vasca di ghiaccio.

Is There an Emotional Hangover After a Tennis Final (ATP)?

Le sconfitte a sorpresa delle teste di serie numero 1 nei 250

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato l’8 febbraio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

In una normale settimana di gioco, nessuno farebbe caso alle sconfitte contemporanee di Fabio Fognini, Karen Khachanov e Lucas Pouille. Questa volta però è diverso, perché si tratta delle teste di serie numero 1 nei tornei 250 in corso rispettivamente a Cordoba, Sofia e Montpellier. A seguito del bye al primo turno, hanno tutti perso al secondo turno contro Aljaz BedeneMatteo BerrettiniMarcos Baghdatis. Due di loro sono almeno andati al terzo set, mentre Fognini ha terminato la partita dopo soli 71 minuti.

Non è la prima volta che una terna di teste di serie numero 1 perde alla prima partita nella stessa settimana. Incredibilmente, non è nemmeno la prima volta che capita in questa settimana del calendario (dal 4 al 10 febbraio, n.d.t.). Due anni fa, quando il torneo sudamericano si giocava a Quito, i risultati furono identici: le teste di serie numero 1 Marin Cilic, Ivo Karlovic e Dominic Thiem persero le loro partite. Nikoloz Basilashvili, che aveva sconfitto Thiem, riuscì a replicare l’impresa anche la settimana successiva, a Memphis, costringendo Karlovic alla seconda sconfitta consecutiva al secondo turno.

Risultati a sorpresa prevedibili?

Prendendo spunto da queste sconfitte, è naturale chiedersi se le teste di serie numero 1 sono più vulnerabili in tornei come i 250 nell’attuale fase della stagione. Una certa logica sussiste. La testa di serie numero 1 ha normalmente una classifica intorno alla 20esima posizione, cioè il tipo di giocatore che avrebbe potuto pensare di dedicare tempo all’allenamento. Essendo consapevole che Slam e Master 1000 offrono più punti valevoli per la classifica, la vittoria di eventi minori non è per lui priorità assoluta.

L’avversario invece intende sfruttare qualsiasi opportunità a disposizione, perché anche i punti dei tornei minori potrebbero contribuire in modo sostanziale alla classifica. Inoltre, ha già giocato – e vinto – al primo turno, quindi potrebbe avere un rendimento superiore alla media, o il suo stile potrebbe adattarsi perfettamente alle condizioni di gioco.

Facciamo una verifica

Senza considerare la carneficina di questa settimana, dal 2010 ho trovato 267 eventi che non sono Master 1000 in cui la testa di serie numero 1 ha ricevuto il bye al primo turno e completato la partita di secondo turno (ci sono stati anche un ritiro pre partita e tre in partita; solo uno però ha comportato la sconfitta della testa di serie numero 1). La testa di serie numero 1 aveva una classifica mediana di 10 e lo sfavorito una classifica mediana di 89. Sulla base delle mie valutazioni Elo specifiche per superficie al momento di ciascuna partita, il giocatore favorito avrebbe dovuto vincere l’81.5% delle volte. Una probabilità quindi più alta di quella del trio esaminato, visto che Fognini era favorito al 64%, Khachanov all’80% e Pouille al 69%.

Si trova che, in realtà, i giocatori non teste di serie sono andati oltre le attese. I favoriti hanno vinto solo il 78.6% delle partite, una frequenza bassa a sufficienza da poter dire che c’è solo una probabilità del 3% che dipenda dal caso. Non è un effetto enorme, certamente non abbastanza da poter prevedere i risultati di questa settimana. Sembra però che alcune delle teste di serie numero 1 si presentino accompagnati da scarsa motivazione e che un po’ degli sfavoriti giochino meglio del previsto.

Navigare con il vento in poppa

Cosa si può dire dei giocatori che ottengono il risultato a sorpresa? Una volta sconfitte le teste di serie numero 1, in quanti riescono a sfruttare l’opportunità di proseguire nel torneo? Berrettini ha recuperato lo svantaggio nei quarti di finale battendo Fernando Verdasco. Prevedo che dei tre Bedene abbia la probabilità più alta di vincere il torneo, anche se inferiore al 20% (Bedene ha poi perso ai quarti di finale contro Pablo Cuevas in due set, così come ha fatto Baghdatis contro Radu Albot; Berrettini invece ha perso in semifinale contro Marton Fucsovics al terzo set, n.d.t.).

Lo sfavorito ha vinto 66 delle 267 partite del campione. In più della metà delle volte però, si è poi rivelata la fine del tragitto. Il 58% (38 su 66) ha perso ai quarti di finale. Altri 17 hanno perso in semifinale. Quale sia l’allineamento di pianeti del secondo turno, scompare nei turni successivi. Delle 105 partite giocate dai 66 giocatori nei quarti di finale o oltre, il sistema Elo ritiene che ne avrebbero dovute vincere il 44.9%. Invece, si sono fermati al 42.3%.

Rimane comunque della speranza. Dopo aver sconfitto la testa di serie numero 1 al secondo turno, cinque giocatori hanno vinto il torneo. Di uno abbiamo già parlato, Estrella, che ha battuto Karlovic e alzato il trofeo a Quito 2017. Forse esiste davvero un po’ di magia nella sesta settimana del calendario. Almeno, i tre sfavoriti del Magical Mystery Tour 2019 vorrebbero certamente pensare che sia così.

Top Seed Upsets in ATP 250s

Il Match Charting Project raggiunge e supera le 5000 partite

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 6 febbraio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Siamo di fronte a una pietra miliare. Il Match Charting Project – la piattaforma che ho ideato per la raccolta di dati punto per punto delle partite di tennis professionistico con il contributo di volontari – ha completato la partita numero 5000.

La cifra tonda appartiene alla qualificazione di Coppa Davis tra Robin Haase e Lukas Rosol, mappata da Zindaras, che ha da poco iniziato a contribuire al progetto, immediatamente seguita dalla 5001, la finale del torneo di Hua Hin tra Dayana Yastremska e Ajla Tomljanovic (al momento della traduzione si è già arrivati a 5032, n.d.t.).

Dati non disponibili altrove

Senza troppi giri di parole, i dati del Match Charting Project non sono disponibili da nessun’altra parte. Di ogni colpo vengono tracciati tipologia e direzione, oltre alla direzione di ogni servizio e alla profondità di ogni risposta. In tutto, abbiamo collezionato più di 770.000 punti e più di 3 milioni di colpi. È un insieme di dati che ha reso possibile analisi come quella che ho fatto di recente per l’Economist sulle tattiche di gioco in grado di contrastare Novak Djokovic, o anche un tentativo di quantificare il valore dello smash, una dissertazione sulla posizione insolita alla risposta di Kei Nishikori e uno sguardo all’evoluzione del rovescio di Juan Martin Del Potro.

Non avrei mai immaginato, alla nascita del progetto nel 2013, di arrivare a raccogliere una massa così imponente di informazioni. Avevo in mente di andare nello specifico della profondità, non tanto di mettere insieme la maggior quantità possibile di occorrenze. Invece ora entrambe sono disponibili.

In circa 100 volontari siamo riusciti a inserire quasi tutte le finali Slam fino al 1980, la maggior parte delle finali Masters fino al 1990, e un crescente numero di semifinali di Slam e di finali Premier femminili. Più recentemente, abbiamo mappato tutte le finali del circuito maggiore del 2018 e del 2019, tutti gli scontri diretti tra i Fantastici Quattro e quasi tutte le finali giocate da ciascuno di loro.

5000 partite sono tante

L’ampiezza dei dati disponibili va oltre le partite di alto profilo che ho elencato. C’è almeno una partita per circa 1100 tra giocatori e giocatrici, almeno 10 partite per 268 giocatori, almeno 20 per 117 giocatori, almeno 50 per 33 giocatori e più di 100 per 11 diversi giocatori.

È sempre più possibile usare i dati del Match Charting Project per seguire l’evoluzione di un giocatore, un aspetto che non pensavo rientrasse nel perimetro del progetto. Soprattutto, a differenza di molte iniziative relative alle statistiche nello sport, in questa c’è equilibrio tra i due generi. Le partite femminili infatti rappresentano il 47% del totale, nonostante la difficoltà nel reperire le immagini per quelle addietro negli anni (non che i problemi degli ultimi tempi con lo streaming della WTA abbiano aiutato).

Fa riflettere che la partita 5000 sia stata mappata da un nuovo volontario, perché le prime settimane del 2019 segnano uno dei periodi più prolifici nella storia del progetto, sia in termini di volontari, sia per il numero di partite inserite. Solo del 2019, ci sono già più di 200 partite, tra cui 85 degli Australian Open. A dare ulteriore impulso è stato un altro nuovo volontario, tsitsi, con più di 130 partite da quando ha iniziato poco più di un mese fa.

Naturalmente i ringraziamenti vanno a tutti quelli che hanno contribuito. Come detto, quasi 100 persone si sono date da fare, alcune più di altre. Edo ha inserito 663 partite, tra cui molte delle finali e semifinali Slam. Oltre a Edo e tsitsi, altri 8 hanno contribuito con almeno 50 partite: Isaac, Lowell, ChapelHeel66, Edged, Palaver, Salvo, 1HandBH, and DebLDecker.

Le prossime 5000

Spero vivamente che vi uniate al gruppo. Qui trovate la mia guida rapida per iniziare, oltre a 11 buoni motivi per contribuire. Il tennis è uno sport complesso, ma credo che anche una curva di apprendimento in salita meriti l’investimento di tempo.

Anche se non vi sentite pronti per contribuire, il mio incoraggiamento, rivolto a tutti gli appassionati, è di approfittare dei dati a disposizione. Una sola partita mappata, come ad esempio la finale degli Australian Open 2019, contiene migliaia di informazioni sui singoli punti, a descrizione di diversi ambiti di gioco.

Trovo incredibilmente illuminante confrontare i numeri della specifica partita con le medie del circuito, della superficie e dei giocatori che, per la maggior parte delle statistiche su ciascuna pagina, si visualizzano muovendo il cursore del mouse sui numeri. Ci sono anche le medie specifiche per giocatore sulle pagine come questa per Petra Kvitova. Per chi è alla ricerca di dati grezzi, la maggior parte è sulla mia pagina GitHub.

L’obiettivo che mi sono sempre posto con Tennis Abstract, Heavy Topspin e il Match Charting Project è di aguzzare la vista nel tennis, cioè di acquisire una migliore comprensione di ciò che succede sul campo, senza mai dare per assodata la saggezza popolare.

Direi che stiamo facendo progressi.

The Match Charting Project Reaches 5,000 Matches

La resistenza di Ivo Karlovic e la chiave dell’invecchiamento nel tennis maschile

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 9 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Diciamolo subito: Ivo Karlovic è fantastico. Ha giocato la prima partita sul circuito maggiore quando aveva 22 anni, e per i due anni successivi è stato lontano dai primi 100. Ma è poi riuscito a raggiungere il numero 14, a vincere più di 350 partite e nove tornei del circuito maggiore. A poche settimane dai 40 anni (il 28 febbraio), è arrivato in finale del 250 di Pune, a due soli punti dallo sconfiggere il numero 6 Kevin Anderson, assicurandosi di rimanere nei primi 100 almeno fino al compleanno.

Il fatto che sia uno dei giocatori più alti nella storia del tennis e che molti record relativi agli ace portino il suo nome è argomento a parte (anche se sicuramente degno di approfondimento, come spero di fare in futuro sul rapporto tra dinamiche di invecchiamento e stili di gioco). Il suo tennis da chiusura immediata, che evita scambi estenuanti che hanno consumato giocatori come David Ferrer, può di certo rendere più facile sostenere il livello competitivo anche in età avanzata. Di contro però, rimane uno dei pochi giocatori ad attuare con continuità il servizio e volée, una tattica che molti dei colleghi più giovani e veloci non è in grado di eseguire con altrettanta efficacia. Semplicemente, Karlovic è un giocatore a sé.

Sovversione della logica naturale

Nonostante l’unicità, Karlovic rappresenta un aspetto importante del tennis maschile nella decade in corso. Da quando è apparso sul circuito quasi vent’anni fa, l’ATP è invecchiata, e dieci giocatori di almeno 33 anni superano Karlovic in classifica. Di questi, il trentasettenne Roger Federer, è ancora uno dei giocatori più forti. Pur con un’età media che sta iniziando a recedere, siamo ancora nell’epoca d’oro dei trentenni.

Giocatori come Karlovic e Federer sembrano aver sovvertito la naturale interpretazione logica dell’invecchiamento. Nella maggior parte degli sport esiste un picco di età che corrisponde ad aspettative affidabili di massimo rendimento. Fino a quel punto, è ancora in corso lo sviluppo fisico e mentale, per poi lasciare spazio al calo fisico e a quello di prestazione.

C’è sempre molta variazione intorno alla media, ma la traiettoria complessiva – emersione, crescita, punto massimo, declino, ritiro – è abbastanza prevedibile. In parte, è lo stesso cammino fatto da Karlovic, solo con un’avvio in ritardo e un sorprendente secondo picco dopo i trent’anni.

L’indice di dominio corretto

Per confrontare i rendimenti anno su anno, ho calcolato l’indice di dominio (Dominance Ratio o DR), un’utile valutazione del livello complessivo di prestazione calcolata come il rapporto tra i punti vinti alla risposta e i punti vinti alla risposta dall’avversario. Ho poi corretto per la bravura degli avversari (è un algoritmo complicato, ma ne ho spiegato il funzionamento in questo articolo).

Il valore 1.0 rappresenta la media, e l’intervallo tipico va da circa 0.8 (in fase di ritorno al circuito dei Challenger) e 1.2 (il livello dei Fantastici Quattro). L’immagine 1 mostra il DR di Karlovic per ogni anno di età, oltre a una più lineare media mobile di tre anni.

IMMAGINE 1 – Indice di dominio di Karlovic e media mobile di tre anni

Karlovic ha raggiunto il livello massimo intorno ai 31 anni, un po’ in ritardo ma non in modo totalmente atipico per l’attuale periodo. Anche ignorando la sorprendente ascesa dei 36 anni, si è mosso intorno alla media (all’incirca un giocatore stabilmente tra i primi 50) fino ai 35 anni. Nel 2017 e nel 2018 abbiamo finalmente osservato una dinamica di declino, ma se la finale a Pune è di indicazione, Karlovic potrebbe rimescolare le carte ancora una volta (anche la sconfitta nel secondo turno degli Australian Open al tiebreak del quinto set contro Kei Nishikori dopo circa quattro ore è una prestazione solida in questo senso, n.d.t.).

Quasi tutti i professionisti si ritirano prima dell’età a cui è arrivato Karlovic, quindi non sapremo mai quali altri massimi di forma avrebbero potuto trovare. Naturalmente alcuni di quei ritiri sono dovuti a infortuni, e va dato credito a Karlovic in queste fasi finali della carriera per la capacità di preservare una condizione sufficiente ad andare avanti.

Federer è ancora più sbalorditivo

Vediamo un caso di dinamica d’invecchiamento ancora più sbalorditiva, che appartiene a un giocatore che quasi sicuramente si ritirerà prima di sperimentare il declino a cui è andato incontro Karlovic nel 2017 e nel 2018. L’immagine 2 mostra il DR di Federer per ogni anno di età, oltre a una più lineare media mobile di tre anni.

IMMAGINE 2 – Indice di dominio di Federer e media mobile di tre anni

Rispetto a un DR corretto per bravura dell’avversario, la stagione migliore di Federer è arrivata a 34 anni. Anche se non vi fidate, la dinamica complessiva è chiara. Sta continuando a giocare nelle vicinanze del suo massimo pur avendo superato un’età in cui i colleghi diventano capitani di Coppa Davis e ricevono l’onore di un girone a loro nome nelle Finali di stagione (come per Lleyton Hewitt e Gustavo Kuerten nel 2018).

Federer è stato in grado di tenere lontano gli infortuni per praticamente tutti i 20 anni di carriera sul circuito e la salute – cioè il semplice fatto di presentarsi alla maggior parte dei tornei – è forse una delle qualità più sottovalutate nel tennis maschile.

Ritiro contro declino di rendimento

La grande maggioranza di giocatori che non riesce a trovare continuità ad altissimi livelli dopo i 35 anni non scende lentamente in classifica come ad esempio un giocatore di baseball che gioca tutte le partite tra i 20 e i 30 anni per poi assumere un ruolo sempre più di rincalzo all’avanzare dell’età. Decide invece per il ritiro, magari per un’infortunio debilitante o per un generale logoramento, o ancora per la mancanza di quel desiderio necessario ad anteporre lo sport a qualsiasi altra cosa.

L’immagine 3 mostra i due modi in cui il livello di un giocatore non si mantiene stabile rispetto all’anno precedente, vale a dire giocando un tennis peggiore (in termini di DR corretto per bravura dell’avversario) o ritiro dal circuito. Quest’ultimo lo si intende quando vengono giocate meno di 20 partite sul circuito maggiore, che qualsiasi professionista tra i primi 100 dovrebbe essere in grado di gestire in assenza di infortuni.

Sorprende il numero di ritiri per ogni età, e con una frequenza che, intorno alla fine dei vent’anni, diventa maggiore della percentuale di giocatori che rimane sul circuito ma con un rendimento inferiore.

IMMAGINE 3 – Confronto tra andamento della diminuzione dell’indice di dominio e del numero di ritiri

La frequenza del ritiro dal circuito sottostima leggermente il numero dei giocatori che se ne vanno, visto che poi circa il 25% rientra alle competizioni, come ad esempio Andy Murray nel 2019 (pur avendo poi annunciato il probabile ritiro nel corso della stagione, legato alla possibilità molto incerta di recupero dall’operazione all’anca, n.d.t.). Anche però ricomprendendo il numero di rientri, un’impressionante quota di quei giocatori di cui ci aspettiamo un declino stabile è costretta al ritiro per infortunio o decide di non continuare.

Effetto di selezione

Tutti questi giocatori che abbandonano rendono estremamente difficile costruire una curva d’invecchiamento per il tennis maschile. Un metodo diffuso per misurare quel tipo di andamento è di identificare tutti i giocatori che hanno giocato stagioni consecutive (ad esempio quella dei 25 e dei 26 anni), calcolare quanto meglio o peggio hanno reso nella seconda stagione e fare una media delle differenze.

Per il giocatori del circuito nati a partire dal 1970, il risultato è assolutamente bizzarro. La variazione negativa più consistente è da 21 a 22 anni, quando il DR diminuisce di circa il 2.3%, quando ci attenderemmo cioè che giocatori così giovani salissero nella curva di apprendimento. La variazione positiva più consistente è invece da 30 a 31 anni, con un miglioramento del 4.0%, quando invece penseremmo di essere di fronte a un tetto massimo o anche a un leggero declino.

Siccome questi indici non includono i giocatori che hanno abbandonato il circuito, la maggior parte dei valori anno su anno restituiscono un miglioramento.

Età        Indice DR anno su anno   
19 a 20 -1.7%
20 a 21 +0.9%
21 a 22 -2.2%
22 a 23 -0.3%
23 a 24 +1.5%
24 a 25 +1.1%
25 a 26 +0.7%
26 a 27 +1.5%
27 a 28 +1.2%
28 a 29 +3.5%
29 a 30 -0.8%
30 a 31 +4.0%
31 a 32 +2.6%
32 a 33 +0.7%
33 a 34 -0.5%
34 a 35 +3.0%
35 a 36 -0.4%

Se con questi indici costruissimo una curva d’invecchiamento, otterremmo una linea che sale vorticosamente, come se ci si aspettasse da questi giocatori di continuare a migliorare fintantoché sono interessati al professionismo.

Le cose però iniziano ad avere un senso quando ridefiniamo le conclusioni così da tenere conto dell’effetto di selezione. Non è corretto dire che il giocatore medio migliora stabilmente all’infinito. Ha più credibilità un’affermazione come: il giocatore medio che si mantiene sufficientemente in forma per affrontare una stagione intera e conserva il desiderio di giocare da professionista a tempo pieno può aspettarsi di migliorare anche ben dopo i 30 anni. Più invecchia, più è probabile che il desiderio del professionismo cali.

Farsi trovare pronti

Come qualcuno dice, metà del successo sta nel farsi trovare pronti per giocare. All’età di 39 anni la maggior parte dei professionisti si è da tempo fatta trovare pronta per altre circostanze della vita. Aggrappandosi alla cruda perseveranza, con un po’ di fortuna e con uno dei servizi più dominanti nella storia del tennis, Karlovic ha mostrato che la curva d’invecchiamento nel tennis è ancora più flessibile di quanto si pensasse.

Ivo Karlovic’s Survival and the Key to Aging in Men’s Tennis

Il cambio della guardia agli Australian Open 2019 è supportato dai numeri?

di Stephanie Kovalchik // StatsOnTheT

Pubblicato il 21 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Vincendo contro Roger Federer, il ventenne Stefano Tsitsipas si è reso autore della più grande sorpresa degli Australian Open 2019 e indotto molti a pensare al possibile inizio di una nuova era. I risultati di Tsitsipas a Melbourne sono i più eclatanti tra quelli raccolti da un gruppo di giovani e talentuosi giocatori, e che hanno reso questa edizione degli Australian Open una delle più storiche.

Dopo una settimana di gioco, le partite del quarto turno sono state tra le più sorprendenti, iniziando con la vittoria di Frances Tiafoe contro Grigor Dimitrov, seguita da Danielle Rose Collins che ha battuto la testa di serie numero 2 Angelique Kerber. A fine giornata, altre tre teste di serie hanno perso: la numero 6 Marin Cilic, la numero 5 Sloane Stephens e la numero 3 Federer.

La sconfitta più sorprendente è stata quella di Federer contro Tsitsipas, che prima dell’inizio del torneo non aveva mai vinto una partita agli Australian Open, oltre a rappresentare il risultato più importante dei giocatori in tabellone della cosiddetta Next Gen.

Di fronte a una nuova era?

Guardando Tsitsipas battersi con il sei volte campione degli Australian Open è stato immediato il parallelo con la vittoria di Federer a Wimbledon 2001, sempre negli ottavi, contro Pete Sampras. Forse lo stesso pensiero che ha avuto John McEnroe quando, nell’intervista dopo partita, ha definito la vittoria di Tsitsipas come “cambio della guardia”.

Nessuna partita, da sola, può dare avvio a una nuova era. Se però consideriamo che nella stessa settimana cinque giocatori con meno di 23 anni sono arrivati al quarto turno, occorre ammettere che McEnroe potrebbe avere qualche ragione. Nel raffronto con il passato, quella statistica di 5 su 16 acquista ancora più valore.

La composizione dell’età al quarto turno degli Australian Open nel periodo tra il 2010 e il 2018 mostra una pressoché aridità di risultati per i giocatori più piccoli di 23 anni. Anzi, è il 2009, l’anno dell’unica vittoria di Rafael Nadal e subito dopo il titolo di Novak Djokovic, l’ultima volta in cui giocatori con meno di 23 anni hanno ottenuto risultati migliori o comparabili con il 2019.

IMMAGINE 1 – Composizione dell’età dei giocatori al quarto turno degli Australian Open per il periodo dal 1989 al 2019

Osservando alcuni dei passaggi storici del torneo, come il primo titolo di Ivan Lendl, Sampras, Federer e Djokovic, si nota che le epoche di dominio sembrano presentarsi in cicli di 5-10 anni. Il 2019 sarebbe quindi la rampa di lancio del cambiamento.

Equa distribuzione

L’aspetto più interessante degli Australian Open 2019 è che per la prima volta nell’era Open l’età dei giocatori si è suddivisa equamente tra i più giovani e i più vecchi. Accanto ai cinque con meno di 23 anni hanno raggiunto gli ottavi di finale sei giocatori con più di 30 anni.

Sembra quindi che tutto sia allineato per una stagione in cui i maestri veterani dello sport dovranno fronteggiare la carica di un manipolo di giovani che sono pronti a rimpiazzarli.

Giocatore       Età 
Federer 37.5
Berdych 33.4
Nadal 32.7
Djokovic 31.7
Bautista Agut 30.8
Cilic 30.3
Nishikori 29.1
Raonic 28.1
Dimitrov 27.7
Carreno Busta 27.5
Pouille 24.9
Medvedev 23.0
Coric 22.2
Zverev 21.8
Tiafoe 21.0
Tsitsipas 20.5

Do Numbers Back Up A Changing of the Guard at the 2019 Australian Open?

Altro Slam, altro inutile cronometro al servizio

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato l’1 febbraio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Il cronometro al servizio per i 25 secondi tra un punto e l’altro è diventato in fretta una presenza stabile in entrambi i circuiti maggiori. Dopo una fase sperimentale, ha debuttato nei tornei di preparazione agli US Open 2018 e da allora è stato ampiamente adottato. Sia gli US Open che gli Australian Open ne hanno fatto uso, e la WTA lo introdurrà negli eventi Premier del 2019, con l’idea di estenderlo poi a tutti i tornei.

Per come l’ho intesa, l’obiettivo del cronometro al servizio è duplice. Il primo, limitare la durata delle partite costringendo i giocatori a un tempo prefissato tra un punto e l’altro. Il secondo, applicare la regola in modo equo.

Dirigenti di tennis e di emittenti televisive sono sempre alla ricerca di accorgimenti per rendere le partite più corte (o, quantomeno, di durata più prevedibile), quindi il primo obiettivo ha una portata più ampia.

Il secondo è più specifico. È risaputo che diversi dei giocatori che impiegano molto tempo tra un punto e l’altro sono le grandi stelle, e si riteneva che l’arbitro esitasse a penalizzarli. In teoria, un cronometro identico per tutti dovrebbe rendere l’applicazione più trasparente, assicurando correttezza a prescindere dallo status.

È difficile valutare il successo del secondo obiettivo. Per certi aspetti, sembra che stia funzionando, vista l’assenza di lamentele da parte dei giocatori. Rispetto al primo obiettivo, è più semplice fare una valutazione degli sviluppi, aspetto che ho analizzato già tre volte, appena dopo il Canada Masters 2018, dopo il Cincinnati Masters 2018 e al termine degli US Open 2018.

Tre eventi separati, medesima conclusione: il cronometro al servizio non ha velocizzato il gioco e, in molti casi, è coinciso con partite più lente.

Come è andata in Australia

Il metodo più immediato per misurare la velocità di un partita è di usare la durata ufficiale e il numero di punti giocati e calcolare i secondi per ogni punto. È un sistema un po’ approssimativo, visto che la durata ufficiale non ricomprende solo il tempo effettivo di gioco ma anche le pause tra i punti, i cambi di campo, le interruzioni per temperature eccessive o per la richiesta di assistenza medica, la moviola istantanea chiamata dai giocatori ed eventuali brevi sospensioni per pioggia. Si tratta quindi di un dato imperfetto, anche se il i cambi di campo od occorrenze simili sono ben definiti, rendendo possibile il paragone.

La tabella mostra i secondi medi per punto per gli uomini e le donne agli Australian open 2018 e 2019, a indicazione della cadenza di gioco prima e dopo l’introduzione del cronometro al servizio.

Anno   Sec/Pt U   Sec/Pt D   
2018 40.2 40.4
2019 41.0 40.3

Non siamo esattamente di fronte a una pubblicità progresso per il cronometro al servizio. In media, le partite sono state più lente nel 2019 rispetto al 2018. D’altro canto però, è un risultato migliore di quanto verificatosi agli US Open 2018, che sono stati in media 2.5 secondi più lenti del 2017, edizione senza cronometro.

Aumenta la precisione, resta la lentezza

Vale la pena ripetere che è un metodo poco raffinato per misurare la velocità di una partita. Per la maggior parte dei tornei però è il massimo ottenibile in assenza di accesso ai dati che l’ATP e (presumibilmente) la WTA possiedono in merito. Negli Slam c’è possibilità per un maggiore dettaglio.

Fino al 2017, per gli US Open e gli Australian Open mi riferisco ai dati di IBM Slamtracker. Per gli Australian Open, la collaborazione con IBM è terminata, ma dati punto per punto sono comunque disponibili sul sito.

Con dati più accurati, si possono ottenere stime più precise della frequenza con cui i giocatori sono andati oltre il limite dei 25 secondi, prima e dopo l’adozione del cronometro al servizio (il limite precedente era di 20 secondi, ma sono convinto che nessuna delle violazioni sia stata assegnata prima che fossero trascorsi almeno 25 o più secondi).

Dopo gli US Open 2018, ho trovato un aumento considerevole del numero di volte in cui i giocatori sono andati oltre i 25 secondi, così come le volte in cui sono andati oltre i 30 secondi. Per chi è interessato, l’articolo contiene approfondimenti metodologici al riguardo.

Di nuovo, gli Australian Open fanno meglio degli US Open, ma non significa necessariamente che il cronometro è efficace, solo che non rallenta le partite in modo così incisivo. La tabella mostra un confronto di violazione temporale prima e dopo l’introduzione del cronometro, per il 2017 e il 2019 (non ho raccolto i dati per gli Australian Open 2018).

Tempo       2017   2019   Delta (%)   
sotto 20s 77.6% 75.9% -2.2%
sopra 25s 91.6% 91.8% 0.2%
sopra 25s 8.4% 8.2% -1.7%
sopra 30s 2.8% 2.1% -25.2%

L’ultima riga della tabella è la prima vera indicazione del fatto che il cronometro al servizio sta funzionando. Rispetto a due anni fa, si superano i 30 secondi tra un punto e l’altro molto meno frequentemente. Di converso, se si considerano i 25 secondi non c’è quasi differenza. Altro elemento negativo, l’apparente miglioramento dato dal valore di 2.1% per l’intervallo sopra i 30 secondi è considerevolmente peggiore di quanto visto agli US Open 2018, in cui si era solo sullo 0.8%. Agli Australian Open, il cronometro ha eliminato alcune delle violazioni più evidenti, ma ne rimangono molte.

Servono medici, non medicine

Il problema principale continua a risiedere nel modo in cui si usa il cronometro. Il conteggio infatti prende il via alla chiamata del punteggio che, generalmente, avviene quando il rumore di fondo nello stadio si è esaurito. Per questo, dopo scambi lunghi o emozionanti – cioè proprio quelli in cui i giocatori prendono più tempo per rifiatare prima di servire – il limite temporale è di fatto allungato.

Ma non c’è ragione perché sia così. L’arbitro dovrebbe far partire il cronometro quando il punto è terminato e, se gli spettatori sono ancora in visibilio dopo 20 o 25 secondi, comportarsi di conseguenza. Alcuni giocatori però hanno già l’abitudine strategica di sfruttare tutto il tempo concesso. Più l’arbitro aspetta prima di far ripartire il cronometro, più dobbiamo attendere la ripresa del gioco.

La mia critica principale all’avvio ritardato del cronometro però è di diverso tipo. Ovviamente vorrei vedere le partite procedere con più rapidità. Ma, come per quasi tutti gli aspetti del regolamento, a darmi fastidio è l’estensione del tempo limite più favorevole per le mega stelle che per i giocatori di rincalzo. In un campo come la Rod Laver Arena a Melbourne, dopo ogni punti giocato si assiste a una anche modesta ovazione, specialmente in presenza di grandi nomi come Roger Federer o Rafael Nadal o Serena Williams.

Lontano dai riflettori sul campo 20, Johanna Larsson può pensare di ottenere un applauso appena accennato anche dopo uno scambio da sfinimento. Più è anonimo il giocatore, minore il tempo di recupero. E dopo un paio di partite, la differenza si fa sentire. Una regola introdotta per aumentare equità e trasparenza non dovrebbe andare a svantaggio degli sconosciuti. In questo caso però negli Slam sembra succedere proprio così.

Prima o poi smetterò di commentare il cronometro al servizio. Finché i due circuiti promuoveranno un’innovazione che fallisce nel proprio dichiarato intento, continuerò a valutarne i risultati. Magari fra qualche anno si arriverà finalmente ad applicarla nel modo giusto.

Another Slam, Another Pointless Serve Clock

Novak Djokovic e una corsa agli Slam sempre più ravvicinata

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 30 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Non serve uno statistico, e neppure un foglio di calcolo, per accorgersi che la vittoria degli Australian Open 2019 è stata per Novak Djokovic tra i percorsi più agevoli in uno Slam. Si può eventualmente discutere se la demolizione in tre set operata in finale ai danni di Rafael Nadal sia dovuta più al dominio inarrestabile di Djokovic o a una prestazione sottotono di Nadal (magari ancora in recupero da dolori vari). Vanno però considerate anche le altre partite, e l’unico avversario di Djokovic in sei turni tra i primi 18 del mondo è stato Kei Nishikori, che si è ritirato dopo 52 minuti.

Nel classico elenco dei titoli dello Slam, la qualità degli avversari non compare. Roger Federer ne ha 20, Nadal 17 e Djokovic ora 15. Come ho scritto in precedenza, la corsa in realtà è più ravvicinata ancora di così, perché gli avversari di Nadal e Djokovic, in media, sono stati più forti di quelli di Federer.

La correzione per la difficoltà degli avversari

Il mio indice “Slam corretti” è una stima della probabilità con cui un tipico vincitore di Slam sconfigge i sette avversari che un giocatore ha affrontato, rispetto alla valutazione Elo specifica per superficie alla vigilia della partita (ho usato la stessa metodologia per i Master 1000).

La spiegazione è lunga e complicata, l’idea di fondo è invece semplice. Alcuni Slam rappresentano un risultato più prestigioso di altri, sia perché alcune epoche offrono un livello competitivo maggiore, sia perché alcuni tabelloni sono estremamente difficili.

Un titolo Slam contro un insieme medio di avversari vale esattamente 1. Partite più impegnative valgono più di 1, e più facili valgono meno di 1. La tabella mostra l’attuale conteggio Slam, insieme all’indice di difficoltà media e al totale corretto.

Giocatore  Slam  Diff. media  Tot. corretto   
Federer 20 0.88 17.7
Nadal 17 1.01 17.1
Djokovic 15 1.11 16.6

(Questi numeri non coincidono con altri che ho pubblicato in passato, perché ho migliorato la precisione del mio sistema di valutazioni Elo. Il totale corretto è diminuito per tutti e tre i giocatori, perché la versione migliorata dell’algoritmo ha eliminato un po’ di quell’”inflazione” Elo che aveva gonfiato i risultati più recenti.)

Hanno dovuto giocare uno contro l’altro spesso negli Slam, ma è Djokovic ad aver avuto il cammino più duro. La difficoltà media dei suoi primi 12 Slam vinti è stata di 1.2, più alta di tutti gli Slam di Nadal tranne tre e di tutti gli Slam di Federer tranne uno, oltre a tutti gli Slam di Pete Sampras tranne due.

Solo di recente Djokovic è riuscito ad aumentare il totale senza dover ogni volta scalare una montagna. Gli Australian Open 2019 valevano 0.84 Slam, solo il quarto tra quelli conquistati in cui gli avversari erano sotto la media. Ma comunque più difficile di Wimbledon o degli US Open 2018, che valevano rispettivamente lo 0.77 e lo 0.65.

Difficilmente il conteggio attuale rimarrà definitivo

Naturalmente, è poco probabile che il conteggio attuale, nella versione semplice o in quella corretta per difficoltà, sia quello definitivo per questi tre giocatori. Nella classifica degli Slam corretti però è più probabile che le posizioni rimarranno molto ravvicinate. Con una competizione generalmente indebolita e giocatori come Andy Murray e Stanislas Wawrinka non più presente regolari nella seconda settimana, gli Slam non sono come quelli di una volta. Qualche anno fa infatti non era insolito per un giocatore dover battere più di uno dei Fantastici Quattro e aggiungere almeno 1.2 al suo totale corretto.

Nel 2018, la difficoltà di uno Slam è stata a malapena metà del livello più alto visto dal 2010 in avanti, come riepiloga la tabella.

Anno    Diff. media   
2002 0.73
2003 0.65
2004 0.82
2005 0.95
2006 0.77
2007 0.93
2008 1.05
2009 1.00
2010 0.95
2011 1.19
2012 1.23
2013 1.22
2014 1.28
2015 1.12
2016 1.27
2017 0.91
2018 0.69

Le cose potrebbero cambiare, specialmente se Djokovic vince il Roland Garros a spese di Nadal (niente genera valori alti corretti per avversari come battere Nadal sulla terra). È più probabile però che questi tre giocatori potranno incrementare il loro totale di incrementi di 0.6 o 0.7. Se da un lato è sufficiente a portare Nadal o Djokovic in cima alla classifica alla fine del 2019, dall’altro non basta per un distacco sostanziale.

È un bene che il dibattito sul migliore di tutti i tempi non verta solo sul totale degli Slam, perché quando viene corretto nel modo giusto in funzione della difficoltà di vincerne uno, rende la scelta di un nome incredibilmente complicata.

Novak Djokovic and the Narrowing Slam Race

L’impatto del nuovo super-tiebreak agli Australian Open 2019

di Stephanie Kovalchik // StatsOnTheT

Pubblicato il 18 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Uno dei vari cambiamenti introdotti agli Australian Open 2019 è stato il super-tiebreak nel set decisivo delle partite di singolare. Dopo due turni, tre partite maschili e due femminili hanno già messo alla prova la regola. Cosa può svelare l’esito di quelle partite sul possibile impatto del nuovo format?

Un format specifico per ciascuno Slam

Nel 2019, ciascun torneo dello Slam avrà uno specifico format. Gli US Open – i primi ad adottare il tiebreak classico nel set decisivo – continueranno a mantenere la loro configurazione, la più breve tra tutte. A Wimbledon si giocherà per la prima volta un tiebreak classico sul punteggio di 12-12 nel set decisivo. Il Roland Garros è rimasto di fatto l’unico Slam con il set decisivo ai vantaggi.

Gli Australian Open si sono lanciati nella mischia adottando il super-tiebreak nel set decisivo. E dopo due turni giocati, già 5 partite sono terminate con il super-tiebreak, compreso il primo turno vinto da Katie Boulter, che ha poi ammesso di essersi dimenticata della nuova regola (nei turni successivi, solo una partita è finita al super-tiebreak, la vittoria di Kei Nishikori al quarto turno contro Pablo Carreno Busta, n.d.t).

Tra gli Slam, gli Australian Open sono stati scenario di due delle dieci più lunghe partite di singolare maschile (escludendo la Coppa Davis): la finale del 2012 tra Rafael Nadal e Novak Djokovic, durata 5 ore e 53 minuti e il primo turno tra Ivo Karlovic e Horacio Zeballos nel 2017, terminato dopo 5 ore e 22 minuti.

Alla luce di questi record, giocatori e appassionati possono chiedersi come il nuovo format contribuirà a eliminare le partite di durata infinita. Riflettiamo sulla domanda pensando alle partite su cui già sono ricaduti i cambiamenti introdotti.

Nel primo turno del tabellone maschile una sola partita è arrivata al super-tiebreak, la battaglia francese tra Jeremy Chardy e Ugo Humbert terminata 10-6 dopo 4 ore e 9 minuti. Al secondo turno, due partite hanno avuto lo stesso destino. In una, l’attira tiebreak Reilly Opelka ha perso 10-5 da Thomas Fabbiano in appena 3 ore e 32 minuti. Nell’altra, Nishikori l’ha scampata dopo 3 ore e 52 minuti contro Ivo Karlovic, vincendo 10-7.

Sono partite che sarebbero durate più a lungo in una situazione di set decisivo ai vantaggi?

Ci aspettiamo che sia così, ma di quanto?

Come giocatori tipo Karlovic e Opelka dimostrano, è più probabile rimanere invischiati in un’interminabile sequenza di servizi in presenza di due giocatori nella stessa partita che vincono una percentuale simile di punti al servizio. Così è stato per Chardy e Humbert, che hanno vinto rispettivamente il 68% e 70% in media, o Fabbiano e Opelka con il 70% e 73%, o Nishikori e Karlovic con il 74% e 78%. Tutti hanno superato la media del 67% del circuito, aspetto che dà garanzia quasi certa di prolungare il quinto set ad oltranza.

Utilizzando un simulatore di risultati con queste statistiche al servizio otteniamo una stima ragionevole della durata addizionale che quelle partite avrebbero avuto se il set decisivo fosse andato ai vantaggi.

La stima con un simulatore di risultati

L’immagine 1 presenta gli esiti per le partite in cinque set con le statistiche al servizio di Chardy e Humbert. Le linee mostrano la mediana, l’80esimo e il 90esimo percentile, mentre la linea rossa identifica l’effettiva durata della partita. Emerge che anche per un format più corto, la partita tra Chardy e Humbert è stata comunque insolitamente lunga, rientrando quasi tra il 20% di quelle che ci si attende abbiano durata più lunga quando c’è il set decisivo ai vantaggi. Con la durata attesa di 1 partita su 20 al quinto set di almeno 5 ore, c’era una buona probabilità che sarebbe potuta andare peggio di così.

IMMAGINE 1 – Durata attesa della partita tra Chardy e Humbert con il set decisivo ai vantaggi

Il nuovo format ha probabilmente avuto conseguenze più importanti sulla partita tra Fabbiano e Opelka, la cui durata effettiva ricade quasi esattamente nella mediana della durata attesa per una partita di cinque set nel format con il set decisivo ai vantaggi. Questo si traduce in una probabilità del 50% che avrebbe potuto durare più di quanto non abbia fatto.

IMMAGINE 2 – Durata attesa della partita tra Fabbiano e Opelka con il set decisivo ai vantaggi

L’impatto maggiore fino a questo momento è stato per la partita tra Nishikori e Karlovic. Osservando la distribuzione delle durate sulla base delle loro caratteristiche di servizio, possiamo notare come Nishikori possa ritenersi fortunato per l’introduzione della nuova regola. Senza, si sarebbe infatti trovato di fronte al 70% di probabilità di una guerra di nervi di più di 4 ore una volta raggiunto il quinto set contro Karlovic.

IMMAGINE 3 – Durata attesa della partita tra Nishikori e Karlovic con il set decisivo ai vantaggi

L’impatto è già evidente

Sono bastate tre partite per vedere che il nuovo format ha già lasciato il segno nel torneo, ed ha ancora più importanza per quei giocatori con percentuali di punti vinti al servizio superiori al 70%. Può sembrare di poca consolazione per un giocatore che arriva al terzo turno avendo già giocato 9 set, ma meno minuti in campo potrebbero avere un peso per la probabilità di raggiungere la seconda settimana.

Impact of the New Super Tiebreak at the Australian Open

Contrasti: Le belle speranze di Lorenzo Musetti

Per Rivista Contrasti, ho scritto un articolo sulla vittoria di Lorenzo Musetti agli Australian Open Juniores 2019 e sulle sue possibilità di futuro successo tra i professionisti:

[M]usetti ha giocato un torneo impeccabile, gestendo la pressione della testa di serie numero 1 con la solidità di un veterano. Ha sconfitto tre teste di serie, battuto il connazionale Giulio Zeppieri in semifinale e perso il primo e unico set solo in finale contro l’americano Emilio Nava, un avversario con un anno di età in più ed esperienza di tornei Challenger e Futures.

La finale ha riservato le emozioni di una tipica partita molto equilibrata del circuito maggiore, terminata dopo più di due ore nel lungo tiebreak del terzo e decisivo set, in cui entrambi i giocatori hanno avuto almeno un match point. I numeri di Musetti sono stati di tutto rispetto: il 65% di prime di servizio in campo, con cui ha vinto il 71% dei punti, e il 67% di punti vinti sulla seconda. Con 3 soli punti totali a separare i due giocatori (102 a 99 per Musetti), un migliore rapporto tra vincenti ed errori non forzati ha certamente aiutato.

Leggete il resto dell’articolo.

L’impatto del nuovo servizio di Rafael Nadal

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 26 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Un paio di anni fa, il nuovo rovescio di un certo svizzero veterano del circuito aveva monopolizzato la conversazione agli Australian Open. Roger Federer vinceva il torneo, e recuperava posizioni in classifica fino a riconquistare il numero 1 del mondo. Il 2019 è iniziato con un’altra mega stella, Rafael Nadal, impegnata a perfezionare la propria relativa debolezza con la ricerca della massima efficenza al servizio.

I primi risultati sono decisamente positivi. Fino alla semifinale, la prima di servizio di Nadal agli Australian Open 2019 ha raggiunto in media i 185 km/h (115 mph), rispetto ai 177 km/h (110 mph) degli US Open 2018. Non ha subito un break in cinque partite di fila, indietro fino al secondo turno, e ha dovuto salvare solo 13 palle break negli ultimi 15 set.

Va detto che non ha affrontato avversari di grande spessore, visto che il tabellone gli ha messo contro solo due teste di serie fuori dai primi 10. Risultati così a senso unico però possono equamente ascriversi al suo dominio. In fondo, ha demolito Stefanos Tsitsipas poco dopo che la promessa greca aveva eliminato Federer.

Alcuni dei numeri al servizio migliori di sempre negli Slam

Le velocità al servizio sono incoraggianti e le vittorie a senso unico un toccasana per il fisico, ma l’attenzione dovrebbe essere sempre rivolta ai punti, e a quanti Nadal ne vince. Su questa base, con il nuovo servizio Nadal ha raggiunto livelli di eccellenza, con alcuni dei numeri al servizio migliori di sempre negli Slam.

In sei partite Nadal ha vinto l’80.9% dei punti sulla prima di servizio (l’altro finalista, Novak Djokovic, ne ha vinti il 77.5%. Sono entrambi numeri superlativi, visto che la media del circuito sul cemento è inferiore al 75%, un valore che comprende il contributo di giocatori molto più dominanti al servizio). Solo due volte Nadal ha fatto meglio in uno Slam sull’erba o sul cemento: agli US Open 2010 con l’83.6% e a Wimbledon 2008 con l’81.3%.

La tabella riepiloga i primi 10 rendimenti al servizio in uno Slam su una superficie veloce fino alle semifinali.

Torneo                 Pt 1^   Pt 2^             
2010 US Open 83.6% 66.9%
2008 Wimbledon 81.3% 64.3%
2019 Australian Open 80.9% 58.0%
2013 US Open 79.5% 64.7%
2017 Wimbledon 79.4% 58.6%
2011 Wimbledon 79.4% 59.4%
2010 Wimbledon 79.3% 61.6%
2006 Wimbledon 77.9% 62.1%
2012 Wimbledon 77.3% 61.5%
2012 Australian Open 76.8% 56.7%

Si può notare una tendenza in cima all’elenco, vale a dire che sono Slam che Nadal ha poi vinto. Gli US Open 2010 sono il primo Slam vinto sul cemento, con una vittoria in quattro set contro Djokovic, la vittoria più dominante sul rivale di lungo corso in uno Slam che non fosse sulla terra battuta.

A Wimbledon nel 2008 è arrivata la prima vittoria sull’erba nella memorabile finale contro Federer. Gli US Open 2013 sono stati un’altra vittoria relativamente lineare contro Djokovic. I risultati nelle varie edizioni di Wimbledon che riempiono la parte bassa sono un po’ gonfiati dalla superficie, ed è significativo che il secondo migliore rendimento agli Australian Open risale al 2012, con un 76.5% di punti vinti sulla prima. Pur non avendo vinto quel torneo, Nadal ha costretto Djokovic a impiegare quasi sei ore per batterlo.

Sono segnali positivi per Nadal che, come minimo, renderanno la finale ancora più interessante nel confronto tra la nuova pericolosità del servizio di Nadal e il sempre brillante gioco alla risposta di Djokovic.

La seconda rimane più attaccabile

Con un campione di solo sei partite però è difficile, analiticamente, avventurarsi oltre. Nadal ha dominato Tsitsipas, ma lo ha fatto appena meglio della loro partita al Canada Masters la scorsa estate. In Australia, ha vinto l’80.3% dei punti al servizio, di cui l’85% sulla prima. Nelle precedenti partite, ha vinto il 78.9% dei punti al servizio di cui il 93.8% sulla prima.

Un paragone più rilevante è quello tra la vittoria al quarto turno contro Tomas Berdych (75.3% dei punti vinti al servizio, 80.4% sulla prima) e le precedenti partite sul cemento (rispettivamente 66.6% e 72.7%). Non vi si può dare però troppo peso visto che non giocavano dal 2015 e Berdych era di rientro da un infortunio.

In finale, i tifosi più pessimisti di Nadal terranno d’occhio la seconda di servizio, che non ha mostrato lo stesso incremento in efficacia della prima. Nelle sei partite degli Australian Open 2019, Nadal ha vinto il 58.0% dei punti sulla seconda, appena sopra alla sua media in carriera negli Slam sul cemento del 57.3%.

Alex De Minaur, il miglior avversario alla risposta tra quelli di Melbourne, ha effettivamente sfruttato questo accenno di debolezza, limitando Nadal a un misero 36.4% di punti vinti sulla seconda. Djokovic è ancora meglio, perché capace di neutralizzare seconde di servizio più potenti di quella di Nadal e quindi creare seria preoccupazione.

Più efficacia e minore durata delle partite

Dovesse portare alla vittoria del titolo, il servizio di Nadal prenderà giustamente buona parte del merito. Non solo ha reso più efficace quell’aspetto del gioco, ma è stato un fattore nella minore durata delle partite e nella conservazione di energia per le insidie del cemento.

Anni fa ho sfidato la saggezza popolare e sostenuto che Nadal potesse raggiungere 17 vittorie Slam. Da allora, Federe ha alzato l’asticella, ma un Nadal con l’arma in più al servizio fa di 20 o 21 un numero mai così realistico (Nadal ha poi perso la finale con il 51% dei punti vinti con la prima di servizio e con il 62% con la seconda, contro rispettivamente l’80% e l’84% di Djokovic, n.d.t.).

The Impact of Rafael Nadal’s New Serve