Fate attenzione a Tomas Berdych

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 15 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Per anni, Tomas Berdych è rimasto dietro le quinte. Anche nelle molte stagioni passate tra i primi 10, raramente ha messo in difficoltà i Fantastici Quattro, vincendo i suoi 13 tornei contro avversari più deboli.

Il quarto di finale raggiunto agli Australian Open 2018 è stato sorprendente, ma rappresenta anche il compendio di una carriera: un paio di vittorie brillanti e una sconfitta in tre set da Roger Federer.

Da quel momento il resto della stagione è andato a rotoli. Ha vinto due partite di fila solo due volte (di cui una a Marsiglia grazie al ritiro di Damir Dzumhur), ne ha perse cinque di fila tra il Miami Masters e il Roland Garros, per poi arrendersi definitivamente a un infortunio alla schiena prima di Wimbledon.

Con 33 anni compiuti lontano dai campi, sarebbe stato comprensibile vederlo faticare al rientro o decidere che il 2019 sarà l’ultima stagione da professionista. Nessuna delle due possibilità sembra essere quella giusta.

Berdych ha raggiunto la finale nel primo torneo dal quando è tornato, a Doha contro Roberto Bautista Agut, arrivando a un set dal primo titolo dal 2016.

Nel primo turno degli Australian Open 2019, ha facilmente sconfitto in tre set la testa di serie numero 13 e semifinalista nel 2018 Kyle Edmund. È poco probabile che un giocatore di 33 anni si riprenda il quarto posto in classifica – il massimo in carriera – dopo un infortunio alla schiena.

Dovesse evitare altri problemi, i primi 10 non sembrano irraggiungibili, specialmente contro avversari un po’ più deboli di quelli della prima parte degli anni ’00. Dopotutto, giocatori che riescono a rimanere nel circuito, come ad esempio Ivo Karlovic, possono migliorare anche intorno ai 35 anni.

Più sfortuna che altro

La ridotta stagione 2018 di Berdych non è stata così malvagia come può sembrare, e questo è gran parte del motivo della sua rinascita. Vero, ha perso tante partite quante ne ha vinte, e solo una volta ha battuto un giocatore tra i primi 20.

Pur non considerando gli infortuni, la sorte non è stata dalla sua parte. In cinque delle undici sconfitte ha giocato altrettanto bene del suo avversario, stando all’indice di dominio o Dominance Ratio (DR), cioè il rapporto tra la percentuale di punti vinti alla risposta e la percentuale di punti vinti alla risposta dall’avversario.

Si tratta solo di sfortuna: in carriera fino al 2017, Berdych ha perso 35 di quelle partite, ma ne ha vinte 35 quando gli avversari hanno giocato leggermente meglio. Invertiamo alcuni di quei risultati, e il suo record di 11 vinte e 11 perse si trasforma, per quel tipo di partite, in almeno 14-8, consentendogli di arrivare più spesso nei turni finali, tenuta fisica permettendo.

Un metodo più preciso per valutare il rendimento di Berdych nel 2018 si basa su statistiche corrette per il livello degli avversari, di cui ho parlato in un precedente articolo. Il grafico dell’immagine 1 mostra l’indice di dominio per ciascuna stagione, con l’età sull’asse delle ascisse.

IMMAGINE 1 – Indice di dominio nella carriera di Berdych

Indice di dominio di Berdych - settesei.it

La scorsa stagione, quella dei 33 anni, il suo indice di dominio corretto è stato di 1.22, il valore più alto per il singolo anno dal 2012, quando ha terminato da numero 6 del mondo. Potrebbe però essere un risultato casuale dovuto a un campione limitato, sono solo 22 le partite giocate.

D’altro canto un Berdych più in salute dovrebbe giocare ancora meglio. Una schiena più solida e resistente dovrebbe consentirgli di compensare le conseguenze di alcuni scambi che non girano a suo favore.

Ritorno di forza

E “forte” sembra essere la parola esatta, almeno stando ad alcuni dati preliminari. Nelle cinque partite agli Australian Open 2018, la velocità media della prima di servizio è oscillata tra 191 e 198 km/h, tra cui il valore medio di 195 km/h al primo turno.

Nella prima partita degli Australian Open 2019 contro Edmund, la media è stata di 201 km/h. Il servizio più veloce a Melbourne nel 2018 è stato di 212 km/h al terzo turno, rispetto ai 211 km/h dell’altro giorno.

Nel 2018, la frequenza complessiva di punti vinti al servizio è stata la più bassa dal 2009, e quindi il solido rendimento ottenuto arriva da una migliore prestazione alla risposta. Se riuscirà a servire meglio dello scorso anno, siamo di fronte a un altro segnale positivo.

Il proseguo del torneo offre un valido banco di prova della forma di Berdych. Al secondo turno trova Robin Haase, un avversario che un potenziale giocatore da primi 10 dovrebbe battere agilmente (Berdych ha vinto 6-1 6-3 6-3, n.d.t.). Al terzo turno lo aspetta Diego Schwartzman, contro cui è leggermente favorito sul cemento ma che richiede uno sforzo di ben altro tipo rispetto alla partita con Edmund.

Dovesse raggiungere la seconda settimana, il probabile quarto turno è contro Rafael Nadal. Naturalmente le aspettative saranno limitate ma, in fondo, non è molto diverso da tutte le volte in cui hanno giocato in passato. E la speranza è l’ultima a morire: Nadal ha vinto 18 partite su 19, ma l’unica sconfitta è arrivata proprio quattro anni fa, agli Australian Open.

Watch Out For Tomas Berdych

I Fantastici Quattro e le frazioni di titolo Slam

di Edoardo Salvati // settesei.it

Pubblicato il 10 gennaio 2019 su HeavyTopspin

Negli ultimi quindici anni, Roger FedererRafael NadalNovak Djokovic e Andy Murray – i Fantastici Quattro – hanno dominato il circuito maggiore come nessuno prima. È difficile trovare un esempio più eclatante di oligarchia non relativo alla geopolitica.

Da Wimbledon 2003, il primo Slam vinto da Federer, insieme hanno collezionato 54 Slam su 62 (o l’87%) e giocato altre quattro finali. Allo stesso modo, dalla prima vittoria di Federer in un torneo Master ad Amburgo 2002, hanno vinto 106 tornei di quella categoria su 159 (o il 66%) arrivando altre dodici volte in finale.

Dal 2003, hanno vinto dodici edizioni su sedici delle Finali di stagione (o il 75%) giocandone altre quattro. Il 2017 e il 2018 sono i primi due anni degli ultimi quindici in cui altri giocatori hanno vinto il torneo di chiusura del calendario.

Si tratta di un livello di dominio senza precedenti, che ha lasciato poco spazio alla gloria altrui. Chi sono questi altri giocatori e quanto avrebbero vinto se fossero stati in grado di battere i Fantastici Quattro?

I volontari del Match Charting Project amano collezionare dati (e il contributo di chiunque è ben gradito). Recentemente, abbiamo iniziato a occuparci delle semifinali Slam fino al 1980. In molte di queste i nomi degli altri giocatori si ripetono con frequenza.

Ero quindi curioso di vedere quale giocatore avrebbe tratto maggior beneficio in un mondo popolato da Fantastici Quattro più normali.

Nelle profondità di un universo parallelo

A partire da Wimbledon 2003, ho ipotizzato uno scenario quasi impensabile: e se i Fantastici Quattro non avessero mai vinto una semifinale o una finale Slam? Ad esempio, nella semifinale agli Australian Open 2017 Grigor Dimitrov batterebbe Nadal (invece di perdere in cinque set), per poi sconfiggere Federer e vincere il titolo.

Nella semifinale del Roland Garros 2018, Juan Martin Del Potro riuscirebbe a sconfiggere Nadal (invece di perdere in tre set) dovendo poi giocare contro Dominic Thiem in finale. Nel nostro universo parallelo, sempre in quel torneo Thiem vincerebbe la finale contro Nadal (avendola in realtà persa in tre set), conquistando per la seconda teorica volta il Roland Garros.

Non si ottiene quindi una una precisa redistribuzione di alcuni degli Slam vinti dai Fantastici Quattro, perché in questo universo parallelo possono esserci due vincitori per lo stesso torneo. In ogni caso, il computo di titoli e finali fornisce un’idea complessiva di chi si sarebbe messo in luce battendo più spesso i Fantastici Quattro.

La tabella mostra le vittorie e le finali Slam extra (rispetto alle vittorie reali, che non sono elencate) di un mondo immaginario di tennis.

Giocatore       Slam Extra               Finali Extra       
Wawrinka 6 (2 AO - 2 RG - 2 US) 0
Ferrer 6 (2 AO - 2 RG - 2 US) 0
Roddick 5 (1 AO - 3 WIM - 1 US) 2 (1 AO - 1 WIM)
Tsonga 4 (2 AO - 2 WIM) 0
Berdych 3 (1 AO - 1 RG - 1 US) 2 (WIM)
Gasquet 3 (2 WIM - 2 US) 0
Raonic 3 (1 AO - 2 WIM) 0
Del Potro 2 (1 WIM - 1 US) 3 (2 RG - 1 US)
Cilic 2 (1 AO - 1 WIM) 2 (1 AO - 1 US)
Davydenko 2 (1 RG - 1 US) 1 (US)
Thiem 2 (RG) 1 (RG)
Safin 2 (1 AO - 1 WIM) 0
Baghdatis 2 (1 AO - 1 WIM) 0
Soderling 2 (RG) 0
Anderson 2 (1 WIM - 1 US) 0
Dimitrov 2 (1 AO - 1 WIM) 0
Hewitt 1 (US) 2 (1 WIM - 1 US)
Monfils 1 (RG) 1 (US)
Nishikori 1 (US) 1 (US)
Philippoussis 1 (WIM) 0
Agassi 1 (US) 0
Gonzalez 1 (AO) 0
Bjorkman 1 (WIM) 0
Puerta 1 (RG) 0
Ljubicic 1 (RG) 0
Schuettler 1 (WIM) 0
Verdasco 1 (AO) 0
Youznhy 1 (US) 0
Gulbis 1 (RG) 0
Janowicz 1 (WIM) 0
Ferrero 0 1 (AO)
Grosjean 0 1 (WIM)
Henman 0 1 (US)
Kiefer 0 1 (AO)
Nalbandian 0 1 (RG)
Haas 0 1 (WIM)
Chung 0 1 (AO)
Melzer 0 1 (RG)
Totale 62 23

Non sorprende trovare Stanislas Wawrinka, vincitore di tre Slam e nove volte semifinalista, in cima alla classifica. I suoi Slam diventerebbero tre per ognuno di quelli che ha vinto, anche se Wimbledon rimarrebbe elusivo. Fosse riuscito a battere Federer nel quarto di finale del 2014, non sarebbe arrivato oltre la semifinale contro Milos Raonic.

C’è poi un gruppo di giocatori la cui carriera apparirebbe ancora più brillante. David FerrerJo Wilfried TsongaTomas BerdychRichard Gasquet e Raonic potrebbero definirsi campioni Slam.

Ferrer ha perso tutte le semifinali e una finale contro uno dei Fantastici Quattro e la vittoria in uno Slam avrebbe rappresentato il giusto riconoscimento del livello di eccellenza espresso in questi anni.

E, ovviamente, c’è Andy Roddick, che deve aver ardentemente desiderato che l’unico cittadino illustre di Basilea fosse Jacob Bernoulli. Dopo aver vinto gli US Open nel 2003, Roddick ha perso tutte le finali Slam contro Federer, tra cui tre volte a Wimbledon.

Un giocatore che forse meriterebbe di stare più in alto è Del Potro, che ha dovuto giocare contro uno dei Fantastici Quattro in tutte le semifinali, e non ha mai superato i quarti di finale agli Australian Open, battuto due volte da Federer. Ci si sarebbe aspettati da Del Potro più di due ipotetici titoli Slam.

Il governatore

Qualche anno fa, in un articolo per FiveThirtyEight, Carl Bialik si è chiesto se Nadal fosse, tra tutti i grandi dell’era Open, l’ostacolo più insormontabile per la vittoria di uno Slam.

Creando una statistica chiamata “frazione di titolo”, ha quantificato ogni sconfitta contro Nadal come una parte di titolo in funzione del turno in cui è avvenuta: metà per una sconfitta contro Nadal in finale, un quarto per la semifinale, e così via.

Estendiamo l’analisi per calcolare a quante frazioni di titolo gli altri giocatori hanno dovuto rinunciare, da Wimbledon 2003, per via dei Fantastici Quattro, come mostra la tabella. Sono stati considerati anche i ritiri pre e durante la partita.

Bloccato       AO    RG    WIM   US     Frazione   
Federer 2.00 2.50 1.50 1.00 7.00
Murray 2.94 1.25 1.38 0.88 6.44
Djokovic 0.06 2.13 1.00 2.50 5.69
Nadal 1.13 0.13 1.75 0.75 3.75
Roddick 0.50 0.00 1.78 0.88 3.16
Berdych 1.03 0.19 1.31 0.25 2.78
Ferrer 0.88 1.13 0.13 0.51 2.63
Wawrinka 0.72 1.00 0.19 0.63 2.53
Del Potro 0.25 0.70 0.45 1.03 2.43
Cilic 0.81 0.09 0.94 0.44 2.28
Tsonga 0.94 0.19 0.81 0.34 2.28
Hewitt 0.25 0.19 0.56 0.78 1.78
Raonic 0.56 0.13 0.88 0.06 1.63
Soderling 0.00 1.13 0.23 0.25 1.62
Gasquet 0.03 0.38 0.63 0.41 1.46
Monfils 0.11 0.75 0.00 0.57 1.43
Anderson 0.07 0.00 0.64 0.50 1.21
Thiem 0.00 1.02 0.00 0.13 1.14
Baghdatis 0.64 0.03 0.44 0.02 1.13
Davydenko 0.27 0.25 0.01 0.53 1.05
Gonzalez 0.56 0.17 0.13 0.16 1.02
Verdasco 0.30 0.25 0.13 0.28 0.96
Nishikori 0.38 0.20 0.13 0.25 0.96
Youzhny 0.05 0.06 0.41 0.42 0.95
Dimitrov 0.47 0.03 0.31 0.06 0.88
Safin 0.53 0.00 0.28 0.00 0.81
Agassi 0.13 0.00 0.03 0.63 0.78
Haas 0.11 0.22 0.41 0.00 0.73
Robredo 0.19 0.13 0.11 0.25 0.67
Lopez 0.11 0.01 0.19 0.34 0.65
Simon 0.30 0.06 0.19 0.03 0.58
Ferrero 0.25 0.00 0.32 0.00 0.57
Nalbandian 0.13 0.25 0.03 0.16 0.56
Melzer 0.10 0.25 0.06 0.09 0.51
Philippoussis 0.00 0.00 0.50 0.01 0.51
Puerta 0.00 0.50 0.00 0.00 0.50
Almagro 0.06 0.41 0.00 0.03 0.50

Come ci si poteva attendere, i Fantastici Quattro hanno impedito a loro stessi la conquista di più titoli che a qualsiasi altro giocatore, per un incredibile totale di 22.88 Slam.

Federer e Murray sono stati i maggiori contribuenti, rispettivamente con 7.00 titoli e 6.44. Appena sotto i primi quattro troviamo alcuni dei nomi più conosciuti, e ci sono 17 giocatori le cui frazioni di titolo ammontano ad almeno uno Slam.

Nadal si conferma il governatore: si deve passare da lui per vincere uno Slam. Non solo Djokovic, Federer e Murray hanno impedito meno titoli a Nadal – che ha il totale più basso tra i Fantastici Quattro con 3.75 – di quanti Nadal abbia impedito loro, ma ha anche bloccato la corsa degli altri tre più di qualsiasi altro giocatore.

Bloccante    Bloccato    Frazione   
Nadal Federer 3.75
Nadal Djokovic 3.13
Nadal Murray 1.44
Totale 8.32

Djokovic Murray 3.13
Djokovic Federer 3.00
Djokovic Nadal 1.88
Totale 8.01

Federer Murray 1.88
Federer Djokovic 1.56
Federer Nadal 1.50
Totale 4.94

Murray Djokovic 1.00
Murray Nadal 0.38
Murray Federer 0.25
Totale 1.63

Nadal ha una frazione di titolo netta di 2.25 Slam nei confronti di Federer, di 1.25 rispetto a Djokovic e di 1.06 contro Murray. Così come il resto del circuito preferirebbe che i Fantastici Quattro avessero intrapreso un altro sport, tre quarti dei Fantastici Quattro hanno più di una ragione per volere che Nadal si fosse concentrato sul golf.

E Nadal continua a incombere anche agli Australian Open 2019, in corso di svolgimento. Con la testa di serie numero 2, è un potenziale avversario di Federer in semifinale (Murray ha perso al primo turno da Roberto Bautista Agut) e, naturalmente, di Djokovic in finale.

Non c’è garanzia che Nadal arrivi almeno in semifinale, ma con questi giocatori che per l’ennesimo Slam sono le prime tre teste di serie, la fine dell’epoca dei Fantastici Quattro e delle frazioni di titolo Slam è ancora lontana.

The Big Four and Grand Slam Title Blocks

Una riattribuzione delle teste di serie agli Australian Open 2019

di Chapel Heel // HiddenGameOfTennis

Pubblicato l’11 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

In un precedente articolo, ho illustrato la differenza di risultato tra la simulazione del tabellone effettivo degli Australian Open basato sulle valutazioni Elo e 100.000 simulazioni casuali. In questo caso, invece di limitarmi a rimescolare il tabellone secondo le regole dell’ATP ma mantenendo le teste di serie assegnate dagli organizzatori, ho riattributo le teste di serie sulla base delle valutazioni Elo specifiche per il cemento.

Come ormai certamente saprete, le valutazioni Elo specifiche per superficie determinano una classifica diversa, e probabilmente più accurata, rispetto a quella ufficiale.

Pur avendo la mia variante delle valutazioni Elo, non ne pubblico gli esiti perché la disponibilità di classifiche Elo generate da una manciata di siti e tra loro solo leggermente divergenti non ha per me molto senso. Ho usato quindi le valutazioni Elo specifiche per il cemento di Tennis Abstract, che ritengo superiori a tutte le altre.

Tuttavia, avendo utilizzato la mia variante Elo per prevedere il tabellone effettivo, ho eseguito le simulazioni con le teste di serie riattribute mediante lo stesso criterio, per garantire un confronto omogeneo.

Riattribuzione mantenendo intatte le altre posizioni

La tabella mostra ciò che accade con le nuove teste di serie basate su Elo ma con le altre posizioni nel tabellone che rimangono immutate.

In altre parole, la testa di serie nel sedicesimo di Novak Djokovic è sempre la numero 25, ma appartiene a un altro giocatore (Martin Klizan al posto di Denis Shapovalov). Non ci sono problemi per i giocatori che da teste di serie effettive rimangono teste di serie anche con Elo. È solo la loro posizione che cambia tra le teste di serie.

Ci sono però cinque giocatori a cui Elo darebbe la testa di serie che non lo sono nel tabellone effettivo: Stanislas Wawrinka, Nick Kyrgios, Tomas Berdych, Klizan e John Millman. Questo comporta che cinque teste di serie reali perdono il loro vantaggio, e cioè Marco Cecchinato, Diego Schwartzman, Pablo Carreno Busta, Hyeon Chung e Steve Johnson.

Cecchinato è l’esempio più eclatante, avendo la testa di serie numero 17 a fronte di una valutazione Elo sul cemento fuori dai primi 100. Ai fini dell’analisi, ho invertito il posto dei cinque giocatori che hanno perso la testa di serie con quello dei giocatori che li hanno sostituiti (ad esempio, Cecchinato va al posto di Wawrinka, Schwartzman al posto di Kyrgios, etc).

Si può vedere l’effetto della riattribuzione delle teste di serie rispetto al tabellone effettivo. Il colore rosso indica un esito sfavorevole per il giocatore, quello verde un esito favorevole. I numeri tra parentesi sono le nuove teste di serie.

Riattribuzione del tabellone degli Australian Open 2019_1 - settesei.it
Riattribuzione del tabellone degli Australian Open 2019_2 - settesei.it
Riattribuzione del tabellone degli Australian Open 2019_3 - settesei.it
Riattribuzione del tabellone degli Australian Open 2019_4 - settesei.it

Da cosa nasce cosa

La maggior parte dei risultati erano prevedibili e essenzialmente senza conseguenze (una variazione di +/- 0.5%). Anche l’effetto su quei giocatori che ci si aspetta in finale o per la vittoria del titolo è molto ridotto.

Non sorprende che per i cinque giocatori che da non teste di serie sono diventati teste di serie la possibilità di raggiungere i quarti di finale è aumentata in media del 4.1%, anche se quella di Wawrinka in realtà e diminuita di poco.

Per i cinque giocatori che hanno invece perso la testa di serie la possibilità di un quarto di finale è diminuita in media del 3.2%, tranne che per Johnson, per il quale non è variata.

I giocatori che hanno conservato la testa di serie e che ricevono una valutazione ben più favorevole da Elo che dalla classifica ufficiale, come ad esempio Daniil Medvedev, hanno beneficiato di una spinta importante, ma vale anche il viceversa (come per John Isner).

Forse ancora più interessante è il concatenamento di conseguenze che una modifica genera sui giocatori. La testa di serie di Borna Coric non è cambiata (numero 11) e nemmeno il suo posto nel tabellone, eppure la sua probabilità di arrivare ai quarti è diminuita del 10%, perché sia Kevin Anderson che Daniil Medvedev si sono spostati nella sua zona, e anche Kyrgios si è ritrovato in quel sedicesimo.

Kei Nishikori è sceso dalla testa di serie 5 alla numero 8, e ne ha tratto svantaggio per il movimento degli altri giocatori intorno a lui.

Il gemello malefico degli Australian Open

In questa versione del tabellone, le teste di serie sono state riassegnate usando le valutazioni Elo di Tennis Abstract. Ho eseguito anche 100.000 simulazioni facendo muovere tutte le teste di serie (tranne la numero 1 e 2) e altri giocatori, secondo le regole previste dall’ATP. La mia speranza è di ottenere, in questo universo alternativo, il caos totale.

Come in precedenza, rosso e verde indicano miglioramento e peggioramento e i numeri tra parentesi sono le nuove teste di serie.

Riattribuzione del tabellone degli Australian Open 2019_5 - settesei.it
Riattribuzione del tabellone degli Australian Open 2019_6 - settesei.it
Riattribuzione del tabellone degli Australian Open 2019_7 - settesei.it
Riattribuzione del tabellone degli Australian Open 2019_8 - settesei.it

Teoria del caos (fallita)

In parole semplici, non siamo in presenza di caos. Ci sono sicuramente conseguenze di rilievo per alcuni giocatori, la quasi totalità teste di serie (o teste di serie prima della riattribuzione), ma si manifestano nei primi turni, fino ai quarti di finale.

Questo tipo di scenario potrebbe aver effetto cumulato di maggior peso nel corso di un’intera stagione. In un articolo di fine dicembre 2018 è emerso che durante una stagione la fortuna (o sfortuna) cumulata del tabellone effettivo nei confronti di tabelloni casuali non ha avuto impatto determinante, si è in larga parte annullata.

Sembra che riattribuire le teste di serie con un metodo che non sia la classifica determini un effetto cumulato maggiore, del quale però non c’è assoluta chiarezza. Potrebbe fare di Medvedev un esperto di analisi di tennis, anche se temo di non potermi offrire volontario per essere il suo interlocutore sull’argomento.

Reseeding the Australian Open

La fortuna del sorteggio: Australian Open 2019

di Chapel Heel // HiddenGameOfTennis

Pubblicato l’11 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Come solitamente faccio alla vigilia di uno Slam, ho eseguito una simulazione (sulla base di una mia variante alle valutazioni Elo) del tabellone per come è effettivamente definito in modo da ottenere delle previsioni.

Confronto tra tabellone effettivo e simulazioni

Ho poi eseguito la stessa simulazione su 100.000 variazioni del tabellone, seguendo la metodologia ufficiale dell’ATP per posizionare i giocatori all’interno del tabellone.

Successivamente, ho confrontato le previsioni effettive con i risultati emersi dalle simulazioni, così da avere un’indicazione su quanto il tabellone sia di fatto accomodante, rispetto all’insieme delle altre possibili configurazioni.

Le sfumature di rosso indicano che il tabellone effettivo non è stato fortunato per il giocatore in questione rispetto a uno specifico turno, mentre vale il contrario per le sfumature di verde. È possibile che la fortuna sia avversa nel raggiungere quarti di finale e semifinali e che invece sia più benevola per la finale o il titolo.

È ad esempio il caso di Novak Djokovic, i cui primi turni sono leggermente più difficili di un tabellone casuale, ma incrociando potenzialmente Alexander Zverev sul percorso invece di Roger Federer, la sua probabilità per la finale è di poco più favorevole di quella casuale. Variazioni dello 0.5% o meno non determinano conseguenze.

Sembra che sia Borna Coric ad aver ricevuto il tabellone più favorevole e Daniil Medvedev o David Goffin quello forse più duro.

Simulazioni tabellone Australian Open 2019_2 - settesei.it

Luck of the Draw Australian Open 2019

La settimana decisamente positiva di Bianca Andreescu

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 4 gennaio 2019 – Traduzione di Edoardo Salvati

Chi segue il tennis femminile è ormai abituato a vedere giocatrici pressoché adolescenti rifilare sonore sconfitte a colleghe ben più navigate. Nessuno si aspettava però l’impresa portata a compimento dalla diciottenne Bianca Andreescu.

Appena fuori dalle prime 150, con tre vittorie si è qualificata per il torneo di Auckland – che inaugura la stagione 2019 – dove ha poi demolito Timea Babos al primo turno. Sono seguite le vittorie contro le ex numero 1 Caroline Wozniacki e Venus Williams. Ha raggiunto la prima semifinale dopo solo cinque tabelloni di singolare in tornei del circuito maggiore e scalerà la classifica di almeno una dozzina di posizioni.

Vittorie di lusso

La cavalcata di Andreescu si fa notare per il livello delle avversarie. Wozniacki non era in perfetta forma per problemi fisici e Williams non è più imbattibile come una volta, ma è pur vero che a giocatrici di retrovia come la canadese non succede molto spesso di eliminare una numero 1 attuale o passata.

Dal 1984, ho trovato solo 2000 sconfitte di questo tipo. In più di 300 hanno vinto contro una numero 1 o ex numero 1, e molte di queste vittorie a sorpresa arrivano da giocatrici di vertice. Serena Williams ha battuto una numero 1 o ex numero 1 più di 100 volte, Venus ci è riuscita 65 volte, tra cui la vittoria al primo turno contro Victoria Azarenka a Auckland.

Sempre dal 1984, è il 171esimo torneo in cui una giocatrice elimina due o più avversarie con quella qualifica, un evento quindi che si verifica quasi cinque volte a stagione.

Aumento nella frequenza di doppiette

Negli ultimi anni si è assistito a un aumento della frequenza dovuto almeno in parte alla copiosa presenza sul circuito di ex numero 1, aspetto che ne rende più probabile l’accadimento. La maggior parte delle giocatrici che hanno battuto più di una numero 1 sono a loro volta giocatrici di élite. Serena lo ha fatto in 26 dei 171 tornei, Venus in 9. Andreescu è diventata la 71esima a centrare il doppio risultato.

E a diciotto anni e mezzo, la canadese è una delle più giovani a eliminare più di una ex numero 1 nello stesso evento. Ha poco più dell’età di Belinda Bencic quando nel 2015 a Toronto ha sconfitto Serena, Wozniacki e Ana Ivanovic. Dobbiamo tornare indietro al Roland Garros 2006 prima di trovare una giocatrice più giovane in grado di ottenere un risultato simile.

La tabella elenca le giocatrici con età uguale o inferiore a Andreescu.

Torneo                 Giocatrice     Età   
1997 Roland Garros Hingis 16.7
1998 Key Biscayne Kournikova 16.8
1998 Berlino Kournikova 16.9
2006 Roland Garros Vaidisova 17.1
2004 Wimbledon Sharapova 17.2
1999 Indian Wells S. Williams 17.4
1999 Key Biscayne S. Williams 17.5
1987 Key Biscayne Graf 17.7
1988 Boca Raton Sabatini 17.8
1999 Manhattan Beach S. Williams 17.9
2005 Miami Sharapova 17.9
1999 US Open S. Williams 17.9
2015 Toronto Bencic 18.4
1996 Tokyo Majoli 18.5
2019 Auckland Andreescu 18.5

Non sarebbe la prima in questa lista a svanire nel nulla senza aver occupato un posto tra le più grandi di sempre ma, in generale, per una qualificata di diciotto anni è un bel gruppo di cui far parte.

Da una classifica ben al di fuori delle prime 100

E Andreescu si contraddistingue anche perché la sua classifica è ben al di fuori delle prime 100 (almeno per qualche altro giorno). Delle 171 occasioni in cui una giocatrice ha eliminato due numeri 1, nessuna lo ha fatto da una posizione così bassa. Solo Louisa Chirico ha ottenuto questo privilegio quando era fuori dalle prime 100, battendo Azarenka e Ivanovic a Madrid 2016.

Si tratta solo della tredicesima volta in cui una giocatrice batte due numeri 1 o ex numeri 1 da classificata fuori dalle prime 40, e alcune volte è capitato quando un’abituale giocatrice di vertice stava risalendo la classifica dopo un periodo di assenza.

Torneo                 Giocatrice   Età     Class.    
2019 Auckland Andreescu 18.5 152
2016 Madrid Chirico 20.0 130
2003 Roland Garros Petrova 21.0 76
2017 Madrid Bouchard 23.2 60
2007 Istanbul Rezai 20.2 59
2010 Australian Open Kirilenko 23.0 58
2009 Pechino Peng 23.7 53
2014 Montreal Vandeweghe 22.7 51
2007 Pechino Peng 21.7 49
2005 Parigi Safina 18.8 48
2015 Doha Azarenka 25.6 48
2018 Indian Wells Osaka 20.4 44
2014 Dubai V. Williams 33.7 44

Due vittorie così sorprendenti non sono garanzia di futuro successo. Far vedere di essere in grado di sconfiggere due veterane di alto calibro è però probabilmente più indicativo, a questo proposito, di quanto non lo sia vincere una manciata di titoli ITF $25K o diverse prove di Slam juniores in doppio (come Andreescu ha fatto).

In presenza già di così tante celebrate giovani promesse, sono bastate ad Andreescu solo 48 ore per diventare una delle giovanissime del circuito femminile che vale la pena tenere sotto attenta osservazione.

Bianca Andreescu’s Very, Very Good Week

Un rivisitazione della componente mentale nel tennis

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 13 dicembre 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Sembra esserci un consenso di fondo sulla rilevanza della componente mentale nel tennis. È meno chiaro però cosa significhi esattamente. Opinionisti e tifosi spesso si riferiscono a determinati giocatori come più forti o meno forti mentalmente, aspetto che aiuta a giustificare un eventuale divario tra talento e prestazioni.

Predominio, mano calda, continuità di risultato

Ci sono tre concetti a cui più si fa riferimento in una discussione sul “gioco mentale”: predominio nei momenti chiave, mano calda, continuità di risultato. Spesso ne ho criticato l’eccessivo utilizzo da parte dei commentatori televisivi. Ad esempio, servire un ace sulla palla break è considerato predominante, nel senso che quel giocatore ha imposto il suo gioco in un momento molto delicato.

Questo però non vuol dire che il giocatore possa essere descritto come predominante. Reagire bene alla pressione di specifiche situazioni non determina necessariamente che venga fatto più spesso della media.

Lo stesso vale per la “mano calda”: si tende a generalizzare in modo eccessivo da piccoli campioni di dati, quindi se un giocatore colpisce di fila tre rovesci lungolinea vincenti, si è portati a pensare che abbia la mano calda, anche se a volte può dipendere solo dalla fortuna.

È probabile che ci siano giocatori più predominanti, più con mano calda e più continui dei colleghi – o viceversa – anche oltre quanto è attribuibile al caso.

Contestualmente, nessun professionista è così tanto o poco predominante al punto che il suo gioco nelle fasi di maggiore importanza della partita spieghi in larga misura il suo successo o fallimento sul circuito.

Effetti ridotti

La maggior parte dei giocatori vince tanti tiebreak quanti ci si attende dal record di set che terminano con altro punteggio e trasforma palle break in numero pronosticatile dalle statistiche complessive alla risposta. Non accade nulla di magico nelle circostanze di maggiore pressione comunemente chiamate in causa, e non ci sono giocatori che diventano improvvisamente superman o materiale da discarica.

Se siete regolari fruitori del mio blog, è probabile che vi sia capitato di aver già letto sulla tematica, da me o da molti altri analisti di sport. Non voglio estremizzare dicendo che il predominio nei momenti chiave sia inesistente (o la mando calda o la continuità di risultato), mi preme evidenziare che questi effetti sono ridotti, così ridotti che difficilmente ce ne si accorge guardando le partite. E a volte così piccoli da mettere in difficoltà anche gli analisti nel distinguerli dalla casualità totale.

Eppure, rimaniamo con l’unanime, e invitante (!), convinzione che il tennis sia un gioco mentale. Nel tentativo di introdurre diversi tipi di modelli semplificati, scriverò sempre qualcosa del tipo: “sarebbe così se i giocatori fossero dei robot”. Per quanto alcuni di questi modelli siano decisamente precisi, credo che si sia tutti d’accordo sul fatto che i giocatori non sono dei robot, a eccezione forse di Milos Raonic.

Puramente mentale

C’è una versione estrema della convinzione che il tennis sia un gioco mentale che ho sentito attribuita a James Blake, quella per cui la differenza tra il numero 1 del mondo e il numero 100 è puramente mentale (immagino sia una eccessiva semplificazione del pensiero di Blake, ma sono opinioni diffuse a sufficienza da rendere l’idea di fondo degna di considerazione).

È un po’ dura da mandare giù. Chi infatti pensa che Radu Albot (l’attuale numero 99) abbia talento nella stessa misura di Rafael Nadal? Se ci allontaniamo un po’ dalle posizioni estreme, possiamo scorgerne l’attrazione.

Al momento, sia Bernard Tomic che Ernests Gulbis hanno una classifica tra il numero 80 e il 100. Si può affermare con sicurezza che entrambi non hanno talento quanto due tra i primi 10 come Kevin Anderson e Marin Cilic? Eppure spesso Tomic si mette in luce positiva in situazioni di pressione, mentre è Cilic quello a crollare.

Non è un problema di gestione della pressione

Il problema con Tomic, Gulbis e tanti degli innumerevoli giocatori che nella storia del tennis non hanno raggiunto grandi risultati non è la loro incapacità a gestire la pressione. Ricordiamo tutti partite, o set, o altre lunghe sequenze di gioco in cui un giocatore sembra disinteressato, poco motivato o senza energie per nessuna apparente ragione.

Anche tenendo conto dell’effetto o distorsione di selezione, penso che sia più probabile assistere a rendimenti inspiegabilmente mediocri da parte di giocatori che non hanno ottenuto risultati all’altezza delle aspettative (riuscite a immaginarvi Nadal non motivato? O Maria Sharapova?).

In senso molto ampio, li si può intendere come mano calda e continuità di risultato, ma non credo che siano gli esempi canonici a cui generalmente ci si riferisce. Operano invece su scala più larga, diciamo un intero set di mediocrità rispetto ad esempio a tre doppi falli in un solo game, e offrono una nuova modalità di pensiero sugli aspetti mentali del tennis.

Livello massimo sostenibile

Diamo a questa nuova variabile il nome di concentrazione. Ci sono innumerevoli potenziali distrazioni, interiori ed esterne a un giocatore, che ostacolano il raggiungimento della massima prestazione. Più un giocatore è in grado di ignorarle, metterle in un angolo o superarle, più è concentrato.

Ipotizziamo che ciascun giocatore abbia un personale livello massimo sostenibile di qualità di gioco e che, su una scala da 1 a 10, il massimo sia appunto 10 (sottolineo sostenibile per far capire che non si sta parlando delle volée smorzate dietro alla schiena da contorsionista di Agnieszka Radwanska, ma del miglior livello che un giocatore è effettivamente capace di mantenere. Il livello 10 di Nadal è diverso quindi dal 10 di Albot). Il valore di 1 alla base della scala si verifica raramente tra i professionisti, pensiamo a Guillermo Coria o Elena Dementieva che all’improvviso non riescono più a servire.

Maggiore la concentrazione, più spesso un giocatore si esprime al valore massimo di 10 e, per quanto non possa essere in grado di sostenerlo per tutta la partita, il giocatore più concentrato rimane più a lungo al livello 10.

Concentrazione, non continuità

Questa idea della concentrazione assomiglia molto alla vecchia definizione di continuità, e forse è quello che le persone hanno davvero in mente quando ne attribuiscono i meriti a un giocatore. Ma ci sono diverse ragioni per le quali credo sia necessario discostarsene.

La prima è pedanteria: continuità non è necessariamente un bene. Se si chiede a un giocatore di essere continuo e quel giocatore colpisce solo errori non forzati di dritto, ha seguito le istruzioni continuando a giocare male.

Più seriamente, la continuità è spesso associata al concetto di basso rischio, che però è una strategia, non un tratto positivo o negativo. Una giocatrice come Petra Kvitova non sarà mai continua perché il gioco aggressivo che la contraddistingue comporterà sempre molti errori, a volte decisamente negativi e occasionalmente in momenti sbagliati. Anche una strategia ottimale per una Kvitova al massimo della concentrazione sembrerà mancare di continuità.

Se non pensate altro che al tennis, la mia definizione di continuità vi apparirà molto limitata. Sono d’accordo, è un po’ provocatoria. Mi fosse possibile fare meglio di così nell’individuare in modo conciso di cosa parlano le persone in relazione alla continuità, lo farei.

Ripeto, parte del problema è l’eccessiva connotazione del termine. Anche se per continuità s’intende effettivamente concentrazione, ritengo sia importante trovare un’altra parola con meno peso.

Come negli scacchi

La concentrazione è davvero meglio delle altre caratteristiche di gioco mentale contro cui mi sono scagliato? Possiamo misurare in modo oggettivo il predominio nei momenti chiave, diventa molto più difficile analizzare i dati di una partita o di un’intera stagione e quantificare il livello di concentrazione raggiunto da un giocatore.

Tuttavia, ho il forte sospetto che tra i giocatori di vertice, la concentrazione vari di più, ad esempio, della mano calda in micro passaggi di gioco. Detta altrimenti: la differenza in concentrazione tra i migliori potrebbe essere la principale spiegazione di rendimenti differenti.

Ho incominciato a riflettere sull’importanza della concentrazione – ancora una volta, la capacità di sostenere il livello massimo di gioco o un livello appena inferiore per lunghi periodi – durante il Campionato del Mondo di Scacchi del mese scorso tra Magnus Carlsen e Fabiano Caruana (di cui ho scritto per l’Economist).

Appellativo di gioco mentale

Gli scacchi sono molto diversi dal tennis, è ovvio. Ma visto che non prevedono vigore, velocità o agilità di alcun tipo, hanno il diritto di arrogarsi l’appellativo di gioco mentale molto più di quanto spetti al tennis.

Pur dando spazio a momenti di splendore, le classiche partite di scacchi richiedono un livello di concentrazione così sostenuto che pochi riescono a comprendere. Basta un passaggio a vuoto contro un giocatore di élite che a quel punto è meglio abbandonare e riposarsi per la partita successiva.

Lo stereotipo più diffuso di grande maestro di scacchi è quello di una persona anziana che fa leva su esperienza e arguzia derivante da decenni di conoscenza per tenere a bada i giovani giocatori.

Eppure Carlsen e Caruana, i primi 2 del mondo, non hanno ancora compiuto trent’anni. Tra gli attuali primi 30, solo quattro giocatori sono nati prima del 1980, dodici negli anni ’90 e due dopo il 1998. La distribuzione dell’età dei più forti negli scacchi è incredibilmente simile a quella dei vertici del tennis.

Curve d’invecchiamento simili

La curva d’invecchiamento nel tennis si presta a una facile spiegazione. I giocatori possono iniziare a scalare la classifica al raggiungimento della maturità fisica verso la fine dell’adolescenza. Continuano a migliorare tra i venti e i trent’anni beneficiando di maggiore esperienza e di un fisico allenato per sopportare qualsiasi sollecitazione. Poi subentra il deterioramento fisico, i cui effetti iniziano a sentirsi verso i trent’anni, aumentando con il passare del tempo.

C’è naturalmente un fondo di verità in questo. Non importa quanto sia rilevante l’aspetto mentale, è difficile rimanere competitivi se si è perso in velocità o resistenza. E diventa ancora più dura con dolori cronici alla schiena o alle ginocchia.

Ma l’analogia con gli scacchi rimane valida: se il tennis fosse un gioco mentale, con la concentrazione a giustificare gran parte della variazione tra giocatori di vertice, la curva d’invecchiamento sarebbe quasi identica agli scacchi.

I miglioramenti introdotti dalla scienza moderna nelle tecniche di allenamento, di alimentazione e di recupero dagli infortuni hanno portato – grazie alla riduzione degli effetti di deterioramento fisico – a un appiattimento della curva d’invecchiamento del tennis verso la fine dei venti e l’inizio dei trent’anni.

In altre parole, la mitigazione della componente di rischio fisico determina una traiettoria della carriera dei giocatori d’élite nel tennis ancora più simile a quella degli scacchi.

Uno sguardo in avanti

Al momento, è solo un’ipotesi. Si può essere d’accordo che sia molto intrigante, ma resta non dimostrata, e probabilmente è estremamente complessa da dimostrare.

Se una concentrazione sostenuta è un fattore così rilevante nella prestazione dei vertici del tennis, come riusciamo anche solo a identificarla? Il metodo più diretto sarebbe quello di evitare del tutto il campo e studiare esperimenti di misurazione della concentrazione dei più forti. Dubito però si possa convincere i primi 100 della classifica a passare una divertente giornata di test in laboratorio.

C’è tuttavia del potenziale di lungo termine, perché è quello che le federazioni nazionali potrebbero fare con le loro giovani promesse. Anzi, potrebbe essere che alcune lo stiano già facendo. Ad esempio, alcune squadre professioniste americane di baseball e pallacanestro prevedono test cognitivi per valutare giocatori da mettere sotto contratto.

No cavie da laboratorio

Purtroppo, non possiamo fare dei migliori giocatori del mondo delle cavie. Se considerassimo invece i risultati delle partite, potremmo provare a calcolare la concentrazione con un approccio simile a quello che ho adottato prima in nome della quantificazione della continuità (oops!).

Il precedente algoritmo provava a misurare la prevedibilità dei risultati di un giocatore, vale a dire capire se l’undicesimo migliore del mondo perde dai primi 10 ma batte tutti gli altri o se il suo rendimento è meno pronosticabile. Non è quello a cui siamo interessati ora, perché per definizione la continuità non è necessariamente positiva.

Si può però seguire un percorso simile. Con in mano uno o più anni di risultati, si potrebbe stimare il livello massimo di un giocatore, magari con la media dei suoi cinque migliori risultati (il miglior risultato in assoluto potrebbe dipendere da un infortunio dell’avversario, una sospensione per pioggia nel momento sbagliato o un altro episodio inusuale). Avremmo così definito il livello 10 nella scala da 1 a 10 di quel giocatore.

A questo punto, confrontiamo gli altri risultati con il suo massimo. Se la maggior parte è vicina a quel livello – cioè il giocatore con continuità di gioco che perde dai primi 10 ma batte tutti gli altri – sembra allora essere concentrato, almeno da una partita all’altra. Se invece accumula molte sconfitte nette, non riesce a sostenere il livello di cui lo sappiamo capace.

Conclusioni

Non è un metodo totalmente soddisfacente, come spesso accade quando si opera con statistiche riguardanti un’intera partita. Forse, si potrebbe fare ancora meglio con dati specifici sui colpi o generati da sistemi come Hawk-Eye. Con un approccio come quello descritto – stabilire un massimo come termine di paragone – si potrebbero analizzare la velocità o l’efficacia al servizio, la frequenza delle risposte in gioco, la conversione delle opportunità a rete, e così via.

Sarebbe complicato, in parte perché la bravura dell’avversario e la velocità della superficie hanno sempre la possibilità di incidere su quei numeri, ma credo valga la pena approfondire. Se ho ragione, se cioè il tennis non è solo un gioco mentale, ma è profondamente influenzato da una concentrazione sostenuta, l’impatto di lungo termine è sullo sviluppo dei giocatori. Scuole e allenatori dedicano già molto tempo alle strategie, usando anche idee derivate dalla psicologia. Sarebbe un passo ulteriore in quella direzione.

La componente mentale nel tennis, e nello sport in generale, resta un caotico groviglio di aspetti sconosciuti. E, visto che la nuova generazione di giocatori d’élite è alla ricerca di piccoli miglioramenti tecnico-tattici da cui ricavare un vantaggio, forse la componente mentale è davvero la prossima frontiera, quella che permetterà alle nuove leve di ribaltare l’ordine precostituito.

Rethinking the Mental Game

I match point di Simona Halep

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato il 21 agosto 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Nel tiebreak del secondo set della finale del torneo di Cincinnati 2018, Simona Halep ha avuto un match point contro Kiki Bertens. Non è riuscita a vincere il punto, poi Bertens ha fatto suo il tiebreak, aggiudicandosi anche il terzo set e il titolo.

Si è trattato di un déjà vu un po’ doloroso per i tifosi di Halep, memori della sconfitta al terzo turno di Wimbledon contro Su Wei Hsieh, a seguito di un match point sprecato.

Halep non gode di una reputazione favorevole nel chiudere le partite, non solo nei match point ma anche nei set point e, più in generale, nei game al servizio quando si decide il set o la partita. Valutare complessivamente la sua abilità nel vincere le partite va oltre le ambizioni di un solo articolo, ma possiamo iniziare ad analizzare il rendimento in un contesto più ridotto – nello specifico i match point – e confrontarlo con quello del resto del circuito maggiore.

Match point e nuove occasioni di chiusura

Partiamo dalle basi. Per qualsiasi giocatrice, raggiungere il match point è (ovviamente!) un ottimo segno del fatto che vincerà la partita. Su circa 16.000 partite femminili dal 2011 per le quali possiedo dati in sequenza punto per punto, le giocatrici che hanno avuto un match point hanno poi vinto la partita in poco più del 97% dei casi.

Non significa necessariamente che hanno chiuso al primo tentativo, o anche nel game o set della prima opportunità, ma pure in presenza di difficoltà di trasformazione del match point sono riuscite a generare nuove occasioni per terminare la partita.

Se vogliamo trovare le prove della debolezza di Halep in questo ambito di gioco, dobbiamo guardare altrove. Tra la fine del 2011 e la Rogers Cup a Montreal in agosto, Halep ha vinto 250 delle 251 partite in cui ha avuto un match point tra quelle di cui possiedo dati in sequenza punto per punto (ne ho per la maggior parte delle partite di Halep, e me ne mancano in modo casuale. Lo stesso vale praticamente per tutte le altre giocatrici. Alcuni dati sono disponibili qui, spero di aggiornali presto con il 2017 e 2018). Vale ha dire che, con l’eccezione di Wimbledon contro Hsieh, non ha mai perso una partita in cui ha avuto almeno un match point.

Non è un risultato che si distingue se lo si confronta con quello delle giocatrici più forti. Tra le cinquanta donne con almeno cento partite con un match point a favore, cinque – Serena WilliamsVictoria AzarenkaAndrea PetkovicEkaterina Makarova e  Elena Vesnina – hanno sempre trasformato un match point, se non proprio al primo tentativo (anche qui mancano alcune partite, ciò non toglie che in un campione casuale di 259 partite, Williams non ha mai perso).

Prima della finale di Cincinnati, Halep era in compagnia di otto giocatrici – tra le altre Petra KvitovaMaria SharapovaAna Ivanovic – ad aver perso una sola partita dopo un match point a favore.

Rendimenti in situazioni di gioco

Non è un caso vedere i nomi più dominanti del tennis femminile nelle zone alte della lista. È vero, le migliori sono quelle che più probabilmente convertiranno il match point ma, altrettanto importante, sono anche quelle con più probabilità di ottenere diverse occasioni per chiudere la partita.

A tiebreak avanzato un errore può rappresentare la sentenza definitiva, ma la maggior parte delle volte in cui Halep, Williams o giocatrici di quel livello mancano di cogliere un’opportunità, sono avanti nel punteggio magari di un set e un break, e quindi in posizione ideale per generarne di successive.

Questo porta a un’altra domanda: che rendimento hanno sul match point le giocatrici? La pressione del momento determina meno punti vinti rispetto a quelli al servizio o alla risposta in cui non si è sul match point? O fattori di natura diversa, come il vantaggio psicologico o il tifo del pubblico, spingono le giocatrici a fare ancora meglio?

A quanto pare non esiste una sola spiegazione; i risultati divergono, seppur di poco, a seconda che il match point a favore sia al servizio o alla risposta. È leggermente meno probabile per una giocatrice vincere il punto quando è al servizio per chiudere la partita, rispetto al suo rendimento al servizio fino a quel punto.

Non è una differenza sostanziale – quasi un 3% in meno nella frequenza di punti vinti al servizio – ma si mantiene costante in molti anni di risultati del circuito femminile. A un punto dalla partita ma sul game alla risposta, l’effetto match point non si verifica. La frequenza dei punti vinti alla risposta rimane invariata a prescindere da una possibile imminente stretta di mano.

Quasi tutte le giocatrici sono vicine alla neutralità

I match point sono quasi parimenti distribuiti tra servizio e risposta: sul circuito femminile circa il 55% arrivano al servizio, con il rimanente 45% alla risposta. Considerando quindi una diminuzione del 3% nel rendimento al servizio ma una situazione immutata alla risposta, le giocatrici vincono all’incirca l’1.5% di punti in meno sul match point che in altri momenti della partita.

Una giocatrice che replica quasi alla perfezione questa tendenza è Caroline Wozniacki, che in 271 partite con almeno un match point e 474 match point effettivi, ha vinto quei match point con una frequenza inferiore dell’1.7% rispetto agli altri punti.

Se analizziamo punti singoli, alcune delle giocatrici che quasi sempre vincono partite con match point a favore non fanno molto meglio della media. Ad esempio, Sharapova vince match point con una frequenza inferiore dell’1.2% rispetto agli altri punti, mentre per Azarenka scende all’1.4%. Dominika Cibulkova ha vinto 198 delle 201 partite con match point nel mio campione di dati, nonostante la frequenza di conversione sia scesa di un incredibile 7%.

Halep però non rientra nella categoria. Nelle 251 partite con match point a favore ha avuto 420 match point singoli, che ha vinto con una frequenza del 4.4% più alta degli altri punti nello stesso insieme di partite.

In poche riescono meglio, anche se alcune con ampio margine, come Kvitova con il +9.0% e Vesnina con il +13.9%. La grande maggioranza delle giocatrici è a qualche punto percentuale dalla neutralità, vincendo cioè match point – al servizio o alla risposta – circa nella stessa misura degli altri punti.

Risultati casuali

Questi numeri comunicano solo una cosa, e cioè quello che è successo in passato. Si è tentati di usarli per fare previsioni, o magari scommettere cifre importanti la prossima volta che a Vesnina manca un punto per la vittoria. Ma quando la maggior parte delle giocatrici è così vicina alla neutralità, serve tenere in mente che molte delle risultanze potrebbero essere del tutto casuali.

Se esistono dinamiche ricorrenti in situazioni di match point, dovremmo essere in grado di identificarle dai dati a disposizione. Ad esempio, potremmo accorgerci che Kvitova trasforma match point con una frequenza alta in ogni singola stagione.

Per ovviare al problema generato dai totali della singola stagione che a volte costituiscono un campione eccessivamente ridotto, ho adottato un metodo differente.

Ho suddiviso in modo casuale in due gruppi distinti le partite di quelle giocatrici che hanno avuto almeno 60 partite con match point, e confrontato il rendimento sui match point con la frequenza di successo negli altri punti.

Se si trattasse di un effettivo talento, ci dovremmo attendere una distribuzione quasi identica in ciascuno dei due gruppi casuali, vale dire meglio o peggio della media nei match point in entrambi i gruppi.

Purtroppo, per questa popolazione di 80 giocatrici con abbastanza match point, non c’è alcun tipo di correlazione. Se le giocatrici manifestano tendenze durevoli e prevedibili di prestazioni superiori o inferiori nelle opportunità di chiusura della partita, o si tratta di variazioni impercettibili o non reggono il passare del tempo.

Previsioni intelligenti

È il classico riscontro associato a specifiche situazioni nel tennis. Il nostro iperattivo cervello in cerca di modelli interpretativi trova più semplice identificare percorsi validi solo all’apparenza. In generale però, le giocatrici vincono punti con la stessa frequenza a prescindere dal contesto.

Nel medio periodo, come i cinque anni rappresentati dai dati punto per punto del mio campione, emergono alcune giocatrici, come Kvitova, Vesnina e, in misura minore, Halep. Ma i risultati passati difficilmente sono garanzia di un determinato comportamento di fronte a match point di partite future.

La previsione più intelligente dell’esito di futuri match point per qualsiasi giocatrice è che si comporterà esattamente allo stesso modo che sugli altri punti. È una conclusione decisamente noiosa. Per fortuna, le circostanze in cui viene giocato un match point sono di solito già per loro natura sufficientemente eccitanti.

Simona Halep’s Match Points

I giocatori di vertice non sempre hanno la frequenza di ace più alta

di John McCool // sportsbrain

Pubblicato il 17 giugno 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Quest’analisi prende spunto dall’articolo di David Robinson sulla stima empirica di Bayes, un metodo statistico utilizzato per stimare un grande numero di percentuali. Qui l’idea è di prevedere il numero di ace sulla base del numero di game al servizio giocati in una determinata partita.

Entrando nel dettaglio, si definisce la frequenza di ace di un giocatore come il numero di ace diviso per il numero di game al servizio in una partita. Per la stima della frequenza di ace, si può usare uno stimatore empirico di Bayes mediante una distribuzione Beta. Per chiarezza, la distribuzione Beta è una famiglia delle distribuzioni di probabilità continua definita da due parametri positivi alfa e beta nell’intervallo unitario [0,1].

Definizione dello stimatore e dei parametri

Il primo passo in una stima empirica di Bayes è la definizione dello stimatore Beta a priori rispetto ai dati delle partite a disposizione (dall’inizio della stagione 2016 fino al 28 maggio 2018). L’immagine 1 mostra la densità della frequenza di ace dei vincitori in partite terminate in tre set.

IMMAGINE 1 – Distribuzione della frequenza di ace dei vincitori in partite di tre set.

Serve anche selezionare gli “iper-parametri” alfa e beta per il modello Beta che, in questo caso, hanno un valore rispettivamente di 1.76 e 10.83. Si può poi aggiornare la distribuzione Beta con i dati delle singole partite, vale a dire la frequenza degli ace per ciascun giocatore.

Applichiamo ora i parametri alfa e beta per provare a stimare la frequenza di ace nel caso un giocatore avesse servito cinque ace in dodici game al servizio. La modifica ai parametri alfa e beta cambia il modo in cui il modello si adatta ai dati a disposizione. Noti i valori di alfa e beta e la distribuzione Beta possiamo ottenere una stima della frequenza di ace di un giocatore come segue:

5 + alfa / 12 + alfa + beta = (5+1.76/12+1.76+10.83) = 0.274

Vale a dire, la stima della frequenza di ace per questo giocatore sarebbe del 27.4%. Il grafico di immagine 2 suggerisce che il modello Beta creato ha stimato con accuratezza la frequenza di ace sulla base dei dati dalle partite.

IMMAGINE 2 – Stima della frequenza di ace (asse delle X) di ciascun giocatore rispetto alla frequenza effettiva (asse delle Y)

Più ace non portano per forza a una classifica di vertice

La tabella elenca le prime 20 stime di frequenza di ace e la relativa frequenza effettiva usando la distribuzione Beta a priori per la stima della frequenza di ace della singola partita.

Troviamo una combinazione di giocatori noti e meno noti. Non sorprende la presenza di John Isner (1.49 di frequenza ace effettiva) e Ivo Karlovic (0.74 di frequenza stimata) tra i più alti valori stimati dal modello, considerando la loro efficacia al servizio.

Questi nomi però dimostrano che un’alta frequenza di ace non necessariamente si traduce in una classifica di vertice. Rafael Nadal e Roger Federer non collezionano ace a profusione, ma si può dire che siano stati probabilmente i due giocatori di massimo vertice negli ultimi dieci anni.

Complessivamente, il modello Bayesiano tende a una leggera sottostima della frequenza effettiva di ace di ciascun giocatore, ma è un buon metodo di stima, a cui sarà utile rivolgersi nella previsione di altre statistiche di tennis in futuro.

Il codice per quest’analisi è disponibile qui.

Elite Tennis Players Don’t Always Have the Highest Ace Rates

Cose di tennis che non sapevo su Luca Vanni

di Chapel Heel // FirstBallIn

Pubblicato il 20 settembre 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Il nome di Luca Vanni compare frequentemente tra i giocatori di Challenger e nei tabelloni di qualificazione, e si ha l’impressione che sia sul circuito da sempre. Compiuti ormai i 33 anni, fa parte della classifica ufficiale dal 2006, avendo raggiunto la massima posizione al numero 100 nel 2015. L’immagine 1 mostra l’andamento della sua classifica (su scala logaritmica).

IMMAGINE 1 – Andamento della classifica ufficiale di Vanni dal 2006

Pur essendo ben noto agli appassionati più accaniti, ha collezionato solo 22 partite sul circuito maggiore (l’ultima al torneo di San Pietroburgo, sconfitto al primo turno da Roberto Bautista Agut). Ha vinto solo cinque volte, di cui tre a San Paolo, quando è arrivato in finale nel 2015.

Il sogno brasiliano

Per un giocatore di questo tipo, la finale a San Paolo è stato un vero e proprio sogno. Dopo essersi qualificato per il tabellone principale ma prima dell’assegnazione dei turni, Feliciano Lopez, testa di serie numero 1, si è ritirato. I qualificati e i lucky loser sono quindi stati sorteggiati insieme per il tabellone principale e a Vanni è capitato il posto di Lopez, che ha voluto dire un bye al primo turno.

Al secondo turno ha giocato contro Thiemo De Bakker, anche lui qualificato e vincitore a sorpresa contro Juan Monaco nella partita precedente. Vanni ha sconfitto De Bakker in quasi due ore di gioco, servendo 14 ace. Nei quarti di finale ha evitato una testa di serie, vincendo due tiebreak contro Dusan Lajovic (e sempre con ace in doppia cifra).

Anche in semifinale ha evitato una testa di serie, perché Joao Souza aveva battuto in precedenza Leonardo Mayer. Questa volta in tre ore, Vanni ha battuto Souza per raggiungere la finale, di nuovo con ace in doppia cifra.

In finale però la strada si è fatta più dura. Ha infatti trovato Pablo Cuevas, che in quel periodo era il numero 30 del mondo, perdendo al tiebreak del terzo set. Quattro partite, 47 ace, sulla terra battuta. Non male e non il profilo che mi sarei aspettato di un giocatore italiano con una sola vittoria sul cemento, anche se ha sempre detto che il suo idolo era Marat Safin. Ho già ricordato che Vanni è alto 198 cm?

Nel tennis serve anche rispondere

Se escludiamo il torneo di San Paolo, il record di Vanni sul circuito maggiore è 2-16, sorprendete se si pensa alle sue statistiche al servizio. In carriera, ha vinto il 79% dei game alla risposta, una percentuale da primi 50 del mondo. Pensate a Gael Monfils o Jack Sock. Sfortunatamente, a Vanni è richiesto di competere anche nei game alla risposta, che vince solo l’11% delle volte. Siamo in zona Ivo Karlovic, John Isner e Gilles Muller, i quali però vincono l’85-95% dei game al servizio.

In dodici anni, Vanni ha guadagnato quasi 700 mila dollari di premi partita, poco più di 58.000 dollari a stagione, al lordo di spese per spostamenti, pernottamenti e altre voci. Come ci riesce? Per prima cosa, non fa molti viaggi lunghi. Ha la residenza a Foiano della Chiana, tra Firenze e Roma. Nei 16 Challenger a cui ha preso parte nel 2018, tredici erano in Italia, Francia, Spagna e Slovenia, cioè a distanza ravvicinata. Un altro è stato a Glasgow, che è comunque facilmente raggiungibile (gli altri due erano decisamente lontani, in Uzbekistan e Tailandia).

Nei Challenger, il suo record è di 23 vittorie e 15 sconfitte, e 4-1 nelle partite di qualificazione, con un torneo conquistato e una finale (aggiornati a fine stagione 2018, n.d.t.). Ma è arrivato solo sette volte in finale di Challenger (con 5 vittorie e 2 sconfitte), non è quindi un Rendy Lu o un Ricardas Berankis. Un po’ una sorpresa per Vanni, visti i 16 titoli di Future vinti.

Tennis Stuff I Didn’t Know (about) Luca Vanni

La giusta quantità di servizio e volée

di Jeff Sackmann // TennisAbstract

Pubblicato l’8 settembre 2018 – Traduzione di Edoardo Salvati

Nel tennis moderno, i giocatori si avventurano a rete a loro rischio e pericolo, specialmente seguendo il servizio. Lo sviluppo tecnologico di corde e telai ha permesso di aumentare forza e precisione del passante, dando al giocatore alla risposta un margine aggiuntivo. È difficile pensare a un cambiamento del gioco che porti nuovamente a usare il servizio e volée come tattica dominante.

Spesso però opinionisti e telecronisti sottolineano come i giocatori dovrebbero andare a rete più frequentemente, esortando a un maggiore ricorso al servizio e volée. In un recente articolo su FiveThirtyEight, Amy Lundy ha contribuito alla conversazione con un po’ di numeri, evidenziando come agli US Open 2018 le donne abbiano vinto il 76% dei punti con servizio e volée e gli uomini il 66%. Mostra inoltre come nell’ultimo decennio abbondante a Wimbledon, nel tabellone femminile anno per anno la percentuale di successo si è aggirata intorno al 65%.

Un buon risultato, no? Beh…non corriamo. Fino alle semifinali agli US Open 2018, gli uomini hanno vinto circa il 72% dei punti sulla prima di servizio. La maggior parte dei tentativi di servizio e volée arrivano sulla prima, quindi una frequenza di successo del 66% nelle discese a rete non è la migliore delle raccomandazioni. Le donne sono al 76%, ed è più incoraggiante perché la frequenza complessiva di punti vinti sulla prima di servizio nel tabellone femminile è del 64%. Ma, come vedremo, le giocatrici solitamente non raccolgono così tanta gloria a rete.

Teoria dei giochi a rete

Nel valutare una strategia, occorre prima di tutto ricordarsi che giocatori e allenatori generalmente sanno quello che fanno. Certo, anche loro commettono errori e possono cadere in sequenze di gioco sub-ottimali. Sarebbe però molto sorprendente scoprire che hanno rinunciato a centinaia di punti ignorando una tattica alquanto nota. Se scendere a rete dopo il servizio fosse così remunerativo, i giocatori lo starebbero già facendo.

Ho interpellato i dati del Match Charting Project per avere un’idea più precisa di quanto i giocatori facciano ricorso al servizio e volée, di quanto sia una strategia efficace e, altrettanto importante, quanti punti vincano quando evitano di usarlo. L’esito è molto più incerto rispetto all’entusiasmo dei sostenitori del servizio e volée.

Cosa succede tra le donne

Iniziamo con le donne. Dal 2010 a oggi, in quasi 2000 partite con dati punto per punto a disposizione, ho trovato 429 partite-giocatrice con almeno un tentativo di servizio e volée. Dopo aver eliminato gli ace, a prescindere dalla volontà della giocatrice al servizio di scendere a rete le 429 giocatrici del campione hanno totalizzato 1191 tentativi di servizio e volée – il 95% con la prima di servizio – vincendo 747 punti.

Se invece di scendere a rete su quei 1191 punti avessero vinto il punto con la stessa frequenza con cui, in quelle partite, vincevano i punti sulla prima e sulla seconda rimanendo a fondo campo, avrebbero vinto 725 punti. In alte parole, il servizio e volée ha portato a una frequenza di vittoria del punto del 62.7%, mentre rimanere a fondo è valso il 60.9% dei punti vinti.

Per essere chiari, si tratta di un confronto diretto di frequenze di successo per le stesse giocatrici contro le stesse avversarie, controllando per le differenze tra prima e seconda di servizio. Una divario di circa due punti percentuali non passa inosservato, ma è ben lontano da più del 10% visto tra le donne agli US Open 2018. E per molte giocatrici potrebbe non rappresentare incentivo sufficiente a mettere da parte la scarsa familiarità con il gioco a rete o con quel tipo di tattica.

Cosa succede tra gli uomini

Con ancora più dati a disposizione, la stessa analisi per gli uomini restituisce esiti sconcertanti. In quasi 1500 partite del Match Charting Project dal 2010 a oggi, più della metà dei possibili giocatori-partita (1631) ha provato almeno una volta a seguire il servizio a rete. Escludendo sempre gli ace, circa quattro su cinque sono state prime di servizio. La percentuale di successo a livello di circuito è stata simile a quanto osservato agli US Open 2018, pari al 66.8%.

Controllando per prima e seconda di servizio, gli stessi giocatori al servizio negli stessi tornei contro gli stessi avversari hanno vinto punti con una frequenza del 72.2% decidendo di non andare a rete dopo il servizio. È una differenza* di cinque punti percentuali che evidenzia come, in media, i giocatori usano troppo il servizio e volée.

(*Nota tecnica: queste frequenze complessive sommano semplicemente tutti i tentativi di servizio e volée riusciti e non riusciti. Potrebbero quindi dare peso eccessivo ai giocatori che vanno a rete più spesso. Ho fatto gli stessi calcoli in altri due modi: ponderando equamente ciascun giocatore-partita e ponderando ciascun giocatore-partita per una funzione ln(a+1), dove a è il numero di tentativi di servizio e volée. In entrambi i casi la differenza si è ridotta a quattro punti percentuali, lasciando valide le conclusioni.)

Conclusioni

Sono rimasto molto sorpreso di fronte a questi risultati e non so bene come interpretarli. Il vantaggio è all’incirca il medesimo se un giocatore decide di presentarsi a rete sul servizio o di rimanere a fondo campo. Quindi non è un risultato artificioso dovuto, ad esempio, a uno strano punto in cui Ivo Karlovic o Dustin Brown giocano da fondo, o a quei punti occasionali a basso impatto in cui un giocatore di fondo sceglie il servizio e volée.

Non avendo una spiegazione soddisfacente, mi accontento di una più debole ma che posso fare con più sicurezza: non ci sono prove a supporto del fatto che gli uomini, in generale, debbano andare a rete più spesso dopo il servizio.

Per gli appassionati del servizio e volée, i dati dal circuito femminile sono più incoraggianti, ma comunque di modesto rilievo. Di certo, il 76% di successo agli US Open 2018 è un segnale fuorviante degli effetti positivi che una giocatrice può attendersi dall’applicare una strategia di quel tipo con maggiore costanza. Il riscontro complessivo da circa 2000 partite suggerisce che rimanere a fondo è una decisione altrettanto valida, se non migliore.

The Right Amount of Serve-and-Volley